La sindrome del malato terminale

Ma come si fa a ripetere “ci stanno rubando il futuro” se uno non ha cominciato nemmeno a guadagnarselo?

A. Polito

San Salvario è uno storico quartiere torinese, di cui si è parlato per decenni più per i problemi della delinquenza e della difficile convivenza multietnica che per i suoi palazzi stile Liberty.

Oggi il quartiere è stato riqualificato e si è rilanciato come cuore della movida di Torino. Ogni due metri, un locale in voga per aperitivi e gozzoviglie di ogni tipo. Frotte di avventori alternano cocktail a lounge-bar, “shottini” a vinerie, apericene a rhumerie. 

San Salvario è insomma il posto dove studenti scialacquano denari, dove precari maloccupati spendono e spandono e dove disoccupati a vario titolo sperperano soldi che non hanno.

Questi sono gli stessi soggetti che poi reclamano più soldi, più diritti, più dignità. Più soldi per spenderli in alcol (e altri tipi di intrattenimento). Più diritti per “devastarsi” più liberamente. Più dignità per dignitosamente vomitare all’angolo della strada.
“Movida” è un bel modo, esterofilo, per evitare di dire “degrado”.

Quella di cui vi abbiamo appena parlato, ovviamente, è la versione paternalista e reazionaria di chi non perde occasione per crocifiggere i “giovani”.

Altrettanto ovviamente, è una visione che nasconde in sé una parte di verità.

Principalmente, però, quello che abbiamo fotografato poche righe or sono è un ritratto di comodo, fatto da coloro che non perdono occasione di attaccare la generazione dei venti-trenta-quarantenni.

Scendi in piazza a protestare? Futile ribellismo, andate a lavorare. Vivi ancora a casa? Sei un bamboccione. Ti trastulli nei  locali nei weekend? Allora non stai poi così male. Lavori dieci ore al giorno e non segui la politica? Non vuoi essere artefice del tuo destino.

La colpevolizzazione della generazione più sfigata dell’ultimo settantennio è facile.

Rientra nel quadro di una generale colpevolizzazione del singolo individuo, abbandonato nel magma della globalizzazione da quelle forze politiche, sociali e familiari che una volta rappresentavano un appiglio.

Il messaggio ai giovani è: la colpa è vostra, precari e disoccupati, “neet” di ogni dove. È vostra che non siete capaci a guadagnarvi un lavoro, un’istruzione adeguata, una casa in cui vivere.

Il resto non c’entra, le condizioni non sono mai favorevoli, ma a queste bisogna adattarsi.

Che lo stiate facendo a voucher, gratis, sfruttati e discriminati, il risultato è che un futuro non ce l’avrete comunque. A Polito, che abbiamo citato in apertura, non interessa. Polito ha un compito: difendere il potere, difendere le condizioni date, i rapporti di forza dati.

È certo che sparare su questa generazione è come sparare sulla croce rossa.

Perché è la prima generazione in cui i figli saranno pagati meno dei padri.

Perché effettivamente questa è e sarà una generazione inconcludente.

Una volta c’era l’idea che si potesse fare “ingegneria sociale”, che il mondo potesse essere cambiato, che le forze della storia le potevano mettere in moto le masse in piazza.
Tutti, a destra, come a sinistra, credevano che il mondo fosse qualcosa mai immobile, ma in movimento, su cui però si poteva intervenire. All’epoca, si credeva ancora nella possibilità di una rivoluzione, di un quadro differente. Oggi, tale concezione mentale è cambiata.

Oggi siamo individui atomizzati e disintegrati dal nostra tessuto sociale. Rassegnati, anche se qualcuno ancora prova a reagire.

Una volta si pagavano i contributi per avere una pensione, oggi la paghiamo per garantirla ai nostri genitori (sempre più bassa e sempre più tardi). Una volta si imparava un mestiere, si rilevava addirittura la propria bottega, dopo la gavetta. Oggi è gavetta infinita.
Eppure la reazione stenta a mobilitarsi.

Ci si consenta un’ultima citazione:

La maggior parte dei miei coetanei sono sconfitti, penso, sebbene non abbiano ingaggiato nessuna battaglia. È gente implosa. Quarantenni, sono tornati a vivere a casa dei genitori, si imbottiscono di psicofarmaci. Non credo di essere il solo a conoscere persone che se la passano così.


No, Christian Raimo, autore di questa citazione, non è il solo a conoscere persone che se la passano così.

E allora lasciateci almeno la libertà di un ultimo aperitivo, direbbero molti della nostra generazione.

Il sistema stesso ci chiede di godere. Ci offre occasioni transitorie di godimento. Ci dice che null’altro c’è se non questo piacere transitorio e poi cercarne un altro. Ci consente di non pensare ai nostri impieghi precari, alle nostre undici ore di lavoro mal retribuite, ai nostri matrimoni falliti, offrendoci a piene mani superalcolici e slot-machine. Finché ce né…

È questa la sindrome del malato terminale: finché ho qualche soldo lo sperpero, finché ho un briciolo di energia lo impiego a ricercare il piacere. Perché domani non avrò più né energia né piacere. Quali progetti dovrei intraprendere con un’aspettativa di vita a così breve termine? Quale futuro offre tutto questo nichilismo?

Siamo passati dal “del doman non v’è certezza” al “v’è la certezza che non c’è un domani”.

Ogni progettualità individuale è sparita nel precariato lavorativo. Ogni progettualità sociale è schiacciata da una percezione di impotenza rispetto alle forze dell’economia (i mercati), delle élite (se la Nato bombarda la Federazione Russa…), del terrorismo (possono colpirci ovunque e in qualunque momento). Ogni progettualità spirituale è annegata nella spinta compulsiva a consumare e a godere.

Allora la nostra generazione è vittimista, è vero.
Ma non c’è nulla di peggio per un vittimista di essere davvero vittima di un sistema che lo opprime.

Allora la nostra generazione è paranoica, perché ha paura.
Ma non c’è nulla di peggio per un paranoico che essere davvero perseguitato.

Allora la nostra generazione è narcisa ed edonista, giusto.
Ma non c’è nulla di peggio per uno scialaquatore egoista che essere in un sistema che si basa su indebitamento, consumo e precarietà esistenziale.

Allora la nostra generazione è davvero inconcludente.
Questo vuol dire che non c’è opportunità migliore per passare all’azione. Siamo una generazione di snodo in un deserto politico e sociale. Questi decenni vedranno probabilmente il mondo prendere direzioni fino a ieri impensabili. Nessun partito o movimento ci offrirà soluzioni pre-confezionate, ma starà a noi reinventarcele.

Starà a noi cercare di essere pronti, lottando contro il sistema ed evitando di adeguarci ad esso. Per responsabilità verso i figli che abbiamo o che avremo: riannodare un filo che leghi le generazioni invece di metterle le une contro le altre.

Sta a noi – davvero – fare sì che Polito non abbia alla fin fine ragione. Ma l’unico modo di dimostrargli che ha torto è fare esattamente il contrario di quello che desidererebbe lui.

In evidenza

“Great resignation” non si traduce “Grande rassegnazione”

Una volta mi venne il pensiero che se si volesse schiacciare del tutto un uomo, annientarlo, punirlo con il castigo più terribile, di modo che il più tremendo assassino rabbrividisse all’idea di un simile castigo e ne avesse paura fin da prima, allora basterebbe soltanto conferire al lavoro un carattere di autentica, totale inutilità ed assurdità.

Dostoevskij

Come molti sapranno, il principe Harry ha dichiarato di voler lasciare il lavoro per mettere al primo posto la felicità. Invece di sprecare i suoi anni migliori a inseguire il profitto, Harry – da qualche tempo CEO di una start-up dedicata al vivere in armonia con se stessi, BetterUp – sceglie una vita più umana.

“D’ora in avanti – commenta caustico Stefano Azzarà – si accontenterà dello stretto necessario, assecondando i ritmi del suo cuore: staccherà soltanto cedole e dividendi azionari, limitandosi per il resto ad attendere – sereno e in pace con la natura che ci è madre – il momento in cui incassare l’eredità meritata”.

Per quanto possa sembrare paradossale, la scelta del principino non è affatto controcorrente e si colloca all’interno di un fenomeno che interroga aziende e studiosi. Un fenomeno che ruota intorno al concetto stesso di lavoro, rappresentando un nucleo di riflessione non trascurabile per chi a sinistra ancora si affanna a ragionare su questo tema.

Che la pandemia potesse essere assieme un catalizzatore e un acceleratore delle trasformazioni sociali è un assunto che non ci sembra il caso di questionare. Il diffondersi del Covid-19 è un fenomeno troppo impattante, globale, totalizzante, gigantesco. Le conseguenze della gestione della pandemia lo sono ancora più dell’evento pandemico in sé e per sé.

In fondo, in che cosa consisteva la normalità pre-covid? Nel poter uscire di casa, andare a lavoro, ricevere uno stipendio che serviva ad acquistare merci e tener ben oliata e attiva la macchina del profitto: se consumi prodotti favorisci il lavoro, l’occupazione, e alla fine tutti staranno meglio perché avranno da lavorare e poi da consumare, un circolo virtuoso.  

Pochi avevano una vita agiata. Alcuni una vita decente, molti una vita misera, caratterizzata dalle privazioni e dall’impossibilità di sentirsi realmente felici.

Il primo lockdown ha congelato la normalità delle nostre inerzie e dei nostri automatismi, e ci ha permesso di interrogare e mettere in discussione ciò che consideravamo ovvio, scuotendo alle fondamenta un mondo apparentemente inamovibile. 

Secondo un curioso articolo del Corriere della sera, uscito pochi giorni dopo la dichiarazione di Harry e da cui intendiamo partire per sviluppare il nostro ragionamento, gli sconvolgimenti che la pandemia ha portato nel mondo del lavoro sono legati (anche) ad una nuova consapevolezza: «la gente per la prima volta non è potuta andare a lavorare e si è resa conto di quanto il mondo continuasse a girare senza la quantità di lavoro che faceva abitualmente»[1].

La domanda che ci ha smossi dalla nostra stipsi espressiva, è dunque la seguente: ma perché diavolo lavoriamo così tanto? In fin dei conti, perché lavoriamo?

Il senso di tutto questo lavoro.

Più che una consapevolezza piena, il “movimento” degli “Anti-work” segnala l’esistenza di risposte abbozzate, parziali, frammentate a interrogativi ancora del tutto aperti. Le domande da cui partono questa e altre similari “sacche di pensiero” sono in realtà due, intrecciate: quanto lavoro? Quale lavoro?

Il fenomeno, indubbiamente, esiste: lo dicono fatti e numeri. Non solo, contro-intuitivamente, moltissime persone hanno cambiato lavoro durante una crisi pandemica, ma una buona percentuale ha dato le dimissioni senza avere già in mano un impiego alternativo.

Lo hanno fatto per motivi di repulsione dalla loro attività corrente, in qualche misura. Difatti i “fattori tradizionali” di attrazione verso un posto di lavoro alternativo – aumenti di retribuzione, progressione di carriera, benefit, miglior bilanciamento tra vita privata e lavorativa – non valgono se questo posto non c’è o perlomeno non si ha ancora in mano una lettera di assunzione.

Uno studio recente di McKinsey, che ha avuto una certa risonanza, afferma che il 40% dei lavoratori a livello mondiale ha intenzione di cambiare lavoro entro 4-6 mesi, mentre il 53% dei datori di lavoro ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e quasy due datori di lavoro su tre si aspettano che il problema continui nei prossimi sei mesi, oppure che peggiori.

Proprio questa indagine, che ha coinvolto circa 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti, ha registrato che il 36% di chi si è licenziato, quando lo ha fatto, non aveva ancora in mano un nuovo lavoro.

È proprio questo che caratterizza il nuovo fenomeno: diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, le persone sembrano propense a fare un salto nel buio, e sta evidenziando probabilmente uno scollamento tra dipendenti e imprese che si è acuito enormemente nel periodo dello smart-(remote)working pandemico.

Ci sono poi altre tendenze da prendere in considerazione, come afferma la società di consulenza, quale la Yolo Economy (You only live once), che sta portando i Millennials e la  Generazione Z ad abbandonare il posto fisso per avviare nuove attività, in cui trovare una più adeguata soddisfazione personale rispetto alla loro esperienza come lavoratori dipendenti e subordinati.

È interessante, a proposito dello scollamento di cui dicevamo, notare che da questa analisi emerge una differenza marcata tra le motivazioni reali che spingono le persone a cambiare e quelle che pensano i loro datori di lavoro.

I primi tre fattori citati dai dipendenti sono il non sentirsi apprezzati – dalle loro organizzazioni (54%) o dai loro manager (52%) – e il non sentire un senso di appartenenza al lavoro (51%).

I datori di lavoro, piuttosto, ritengono che i dipendenti si stiano licenziando per la insoddisfacente retribuzione, lo scarso equilibrio tra lavoro e vita privata e la non attenzione alla salute fisica ed emotiva. Questi problemi sono sì stati indicati dai dipendenti, ma non con lo stesso peso a loro attribuito dai datori di lavoro.

Si noti come – pur se la motivazione specifica “Doing meaninful work” è apparentemente tra le cause meno importanti per cambiare lavoro rispetto a quelle prima elencate (ma è citata, comunque) – non si possa non notare che gran parte delle questioni attengono il senso delle relazioni che viviamo ed in qualche modo è evidente che il senso di appartenenza al lavoro (sense of belonging) sia strettamente correlato al senso di quello che si fa lavorando. Anche in Italia, in un contesto sociale e culturale profondamente differente, il fenomeno delle dimissioni volontarie ha un peso che non pare del tutto indifferente (circa il 20% delle cessazioni dei rapporti di lavoro nel primo semestre 2021).

L’approfondimento conseguente e necessario sarebbe indagare queste storie, non solo da un punto di vista quantitativo e non solo con lo sguardo di una società di consulenza in ambito di gestione delle risorse umane. Con quale motivazione hanno davvero sbattuto la porta del loro vecchio ufficio (che magari, nel frattempo, era diventato la loro sala da pranzo)? In nome di che sogno, progetto imprenditoriale, aspettativa? Cosa hanno fatto dopo le dimissioni, a tre mesi, sei mesi, un anno?

Soprattutto… Di cosa hanno vissuto o stanno vivendo? Di incentivi aziendali per ridurre la forza lavoro, in caso di ristrutturazioni aziendali? Di sussidi statali, nei paesi in cui ciò è previsto (ma per quanto e a quali condizioni, visto che non esiste un reddito universale di cittadinanza in nessun paese)? Di altre fonti di reddito (ma quali?) e così via.         

La domanda è fondamentale, perché non siamo ancora riusciti a livello concettuale a slegare il reddito dal lavoro e per molti di noi questo è vero innanzitutto a livello pratico. Al giorno d’oggi, “la disoccupazione è solo per i ricchi” parafrasando uno dei motti del forum “Anti-work”, sorta di fucina di questo nuovo fenomeno. La nostra generazione piuttosto conosce la realtà dei working poors.

Pur senza indagare nel dettaglio tutti questi aspetti, dovremmo iniziare a fare qualche congettura e qualche ipotesi di riflessione, sulla base di un fenomeno che in realtà non è assolutamente del tutto sconosciuto, ma che somma criticità tanto dal punto di vista più classicamente “sindacale” quanto dal punto di vista delle relazioni[2].

Siamo fermamente convinti che le criticità “sociali” avvertite dai lavoratori non si esauriscano in una questione di comunicazione, modalità di gestione delle risorse umane, strutture organizzative. Se sono vere le ricerche a cui abbiamo fatto testé riferimento, un fattore che porta i dipendenti ad allontanarsi dalle loro realtà aziendali, dalle proprie mansioni, è rappresentato dalla mancanza di senso delle stesse – e questo aspetto ha un portato radicale e rivoluzionario, soprattutto dal punto di vista di un paradigma che potremmo definire di “antropologia filosofica”.

Delineare un’altra antropologia filosofica è il primo presupposto per fondare un’altra politica: mettere in discussione le nostre categorie (filosofiche, economico e politiche), per mostrare che non sono naturali, che sono storiche, che hanno delle ambiguità, e che queste ambiguità devono essere non solo mostrate, ma possono essere agite, è l’obiettivo che ci poniamo nella conclusione di questo breve articolo.

In virus veritas.

In un’opera con ampiezza d’analisi e limpidezza di visione, l’antropologo anarchico David Graeber ha definito la categoria dei bullshit-jobs (“lavori-stronzata”) come occupazioni così inutili, superflue o dannose che nemmeno chi le svolge riesca onestamente a giustificarne l’esistenza (seppure si senta obbligato a farlo). Attenzione, non parliamo di shitty-jobs (“lavori di merda”): i lavori-stronzata solitamente sono ben pagati ed offrono anche buone condizioni di lavoro, ma sono inutili (e quindi ampiamente frustranti); i “lavori di merda” sono “shitty” perché sottopagati e perché implicano difficili condizioni lavorative, ma normalmente hanno una grande utilità sociale (pensiamo, banalmente agli addetti alle pulizie).

Se vogliamo parlare di percezione sociale del fenomeno bullshit-jobs, le statistiche fornite dallo stesso autore documentano una diffusione preoccupante per chi sia minimamente interessato all’efficienza dei processi o al benessere dei membri di una comunità: tra i britannici solo il 50% dei partecipanti ad un sondaggio di YouGov riteneva che il proprio lavoro desse un contributo alla comunità nazionale, mentre in un sondaggio analogo il 40% dei lavoratori olandesi affermava che il proprio lavoro non meritava proprio di esistere.

A ciò vanno poi sommati i lavori parzialmente senza senso: gli impiegati delle aziende statunitensi lamentano di sprecare tempo con e-mail, riunioni anti-economiche, obblighi ammnistrativi per il 37% della giornata lavorativa, mentre le principali mansioni legate al proprio lavoro vengono svolte per il 39% del tempo. 

I lavori senza senso sono stati riassunti da Graeber in cinque categorie (ci scusiamo per lo schematismo):

a) I tirapiedi (quali ad esempio gli addetti alla reception: Graeber spiega che i sottoposti sono utili per questioni di immagine o anche per sgravare i capi, svolgendo piccoli – o poco più che fittizi – compiti di routine);

b) Gli sgherri (come lobbisti, addetti alle pubbliche relazioni o al marketing: esistono concettualmente innanzitutto perché i competitor impiegano le stesse figure, in molti casi con finalità manipolatorie o aggressive);

c) I ricucitori (l’organizzazione assume determinate figure, invece di affrontare e risolvere i propri problemi, per dimostrare a sé stessa o ad altri che li sta gestendo, tramite alcuni ruoli di controllo, revisione, testing, eccetera);

d) I barracaselle (qui sta la gran parte dei certificatori dediti a qualità o compliance, che mirano a produrre documenti formali quali checklist, report, ecc. che non hanno la funzione di risolvere problemi, ma semplicemente di indagarli e documentarli, per infondere l’illusione del controllo);

e) I supervisori (lavori senza senso perché non svolgono dei compiti, bensì assegnano lavori ad altri e nel tempo restante verificano che questi li eseguano… talvolta assegnando quegli incarichi senza senso che rientrano nelle categorie precedenti).

Ciò che è da rimarcare è che questi lavori non sono definiti “senza senso” in base a qualche astratto principio etico (ad esempio sulle priorità che una società dovrebbe avere): il primo criterio per definire un lavoro senza senso è che la stessa persona che lo svolge lo avverte come tale. Non la società in sé, non una casta di prelati detentori della morale, non qualche avveduta avanguardia di illuminati: sono gli stessi lavoratori che avvertono come insoddisfacente quello che fanno, definendolo inutile o dannoso.

È sbagliato dire che l’infelicità di questi lavoratori deriva dal non fare niente: la maggior parte degli interessati lavora molto, ma soffre di un “trauma di mancata influenza” e manca loro la “soddisfazione di essere causa”; non avvertono nulla o quasi di quel che fanno come significativo (per loro stessi, per la comunità, per la società in generale, ma molto spesso nemmeno per l’azienda stessa) e rimandano alle ore libere le attività che più li appassionano o che ritengono utili.

Non è difficile trovare, nelle nostre piccole cerchie di conoscenti e familiari, più di un caso analogo (magari meno retribuito) a quello di Hannibal, citato da Graeber, che “scrive rapporti senza senso per agenzie di marketing guadagnando fino a 12mila sterline alla volta” e nel tempo libero “lavora su un algoritmo per la diagnostica a basso costo di pazienti tubercolotici nei paesi in via di sviluppo”: un problema sfidante, quest’ultimo, in cui è possibile collaborare con altri esperti per superare problemi complessi in nome di uno scopo nobile. L’esatta antitesi del lavoro senza senso. In sostanza, Hannibal è ben pagato da ricche aziende per un lavoro inutile e gonfia i loro conti “allo scopo di finanziare un progetto che di fatto salva vite umane”, ma che nessuno finanzierebbe.

Non tutto il lavoro produce valore (sociale) e non tutto il valore viene prodotto da lavoro retribuito. Quanti dei lavori menzionati sopra potrebbero sparire senza che nessuno si accorgesse di niente, qualvolta portando addirittura ad un miglioramento dell’efficienza e del benessere della società?

Sul motivo per cui ci siano così tanti lavori-stronzata o attività senza senso, la spiegazione di Graeber è piuttosto affrettata, appiattita alle radici anarchiche del suo pensiero, almeno per quello che traspare in alcuni passaggi del suo saggio, che banalizziamo (ma non troppo): i “lavori inutili” sarebbero sostanzialmente una palestra di disciplina sociale, per educare le persone alla subordinazione, un po’ come il servizio che prestavano i giovani presso le famiglie aristocratiche nei secoli scorsi. Ciò evidentemente pare del tutto da provare – e contrasta con l’esperienza diretta che molti di noi hanno potuto avere. Davvero gli attori economici – che avranno anche una razionalità limitata ed imperfetta, intrisa di altre dinamiche sociali ben più ampie del mero calcolo economico, e che tuttavia non si può negare ambiscano a essere attori razionali nel senso neoliberale del termine – pagano delle persone solo per educarle a rispettare le gerarchie?

L’esperienza suggerisce piuttosto di concentrarci su altri problemi, quali ad esempio la gestione della complessità e nella definizione delle priorità prima sociali e poi aziendali (che porta a scaricare questa complessità sugli strati subalterni ed intermedi dell’organizzazione), magari abbinate ad una ricerca costante di abbattimento dei costi; una raffinatezza degli apparati che viene dalle dimensioni delle aziende stesse e del mercato ormai globale (strutture di controllo e supervisione ridondanti o comunque sovraccarichi); insicurezze, paranoie e ripensamenti nell’adozione delle strategie, di fronte all’incertezza del mercato, della normativa, del contesto produttivo; la rincorsa di elementi generatori di sofisticazione e apparati parassitari, quali mode e indicatori – certificazioni, eccetera – ritenuti necessari per competere nel proprio settore.

Argomentazioni che traspaiono, frammentate, anche dal pensiero di Graeber, ma che non vengono sistematizzate ed indagate per definire meglio la relazione tra lavori senza senso e loro genesi. Viene difficile pensare, mentre le nostre giornate sono pervase fin nei più intimi pori da compiti di tutti i tipi (per la maggior parte inutili o svolti in maniera poco sensata), che tali attività vengano inventate per rispondere alla necessità della società di insegnarci che siamo nati per fare i “paggi” ed ubbidire al “signore”.

Capire la ragione di questa insensatezza indubbiamente aiuterebbe a costruire una corretta diagnosi: finora abbiamo descritto sommariamente segni e sintomi, ma non l’eziologia. Una volta resa possibile una diagnosi più robusta, dovremmo poter individuare più facilmente quale terapia prescrivere, per rimanere alla metafora medica. Purtroppo, la prematura scomparsa di Graeber gli impedirà di aggiungere tasselli ad una ricerca che comunque non può essere trascurata, se vogliamo intercettare disagi, ansie ed esigenze di trasformazione che sono presenti attorno a noi e rappresentano un’opportunità da cogliere. 

Come evidenziava Thomas Kuhn, il riconoscimento di un’anomalia non è sufficiente, di per sé, a provocare una rivoluzione. Esso da perlopiù luogo a una situazione di crisi, nella quale la comunità cerca di negare o di ridimensionare l’anomalia stessa, sforzandosi di introdurre degli aggiustamenti nel paradigma in modo da renderne ragione. Quanto questo sia sterile è chiaro a chiunque sia cresciuto nel trentennio che Alain Badiou definisce giustamente “Seconda restaurazione”.

 Non possiamo continuare ad accogliere la catastrofe come rumore di fondo. Non possiamo far finta di non vedere. Abbiamo bisogno di nuove osservazioni e analisi, di nuovi termini e di nuovi quadri concettuali utili a comprendere un contesto storico-politico che non ha precedenti.

Nonostante la sofferenza che ha prodotto nella carne viva di un corpo sociale già debilitato, il Covid può rivelarsi un’occasione da non perdere. Non permettiamo che la formazione sociale catastrofica che ci ha condotto alla catastrofe si riaffermi immutata. Sta a noi individuare i mezzi per sopravvivere alla loro catastrofe.
Perché, come scriveva un anonimo writer su un muro parigino, un’altra fine del mondo è ancora possibile.   


[1] Come recita l’incipit dell’articolo: “Lo slogan con cui il forum [Anti-work] si presenta su Reddit è «Disoccupazione per tutti, non solo per i ricchi!». Ma è solo una provocazione. Il gruppo anti-lavoro, cresciuto sul social network americano fino a diventare una comunità di 1,4 milioni di persone dalle 150 mila dello scorso autunno, non è contro il lavoro, ma per un lavoro governato da regole diverse, che ci permettano di vivere meglio[…] È una nuova consapevolezza, sempre più diffusa, che contribuisce a spiegare, in parte, le motivazioni della Great Resignation, il fenomeno di dimissioni di massa spontanee che hanno colto di sorpresa non solo il mercato del lavoro americano, ma anche quello di casa nostra”.

[2] “Nel mirino degli anti-workers ci sono la stagnazione degli stipendi, le troppe ore di straordinario, la reperibilità continua. In generale, emerge la frustrazione delle persone con la struttura gerarchica al lavoro e del modo in cui sono trattate, spiega Rockcellist [uno dei moderatori del forum]” [G. Ferraino, Dalla Great Resignation agli anti-workers, cit.]

In evidenza

Torniamo a Keynes? Come se bastasse volerlo…

L’Italia sta fronteggiando una prolungata e ostinata recessione che rende estremi i fenomeni delle disuguaglianze, che accresce la disoccupazione di massa e quindi l’inevitabile immiserimento della classe media. Di fronte a tale panorama desolante, opinion maker da sveltina che si spacciano per contropotere e che interpretano il neoliberismo come null’altro che una riedizione del laissez-faire ottocentesco, tendono a pensare che sia sufficiente, come si fa per i morti, riesumare dall’oltretomba lo Stato liberale keynesiano.

Secondo John Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la ‘domanda aggregata’ insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a far ripartire l’economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi ripagato quando la crescita fosse ripresa.

La questione del “keynesismo storico” (o “reale”), sul piano politico, è tuttavia stata una vicenda assai più complessa di quanto ce la raccontano per lo più, ancora oggi, gli stessi post-keynesiani.

Dopo il 1945 il capitalismo si era ritrovato sulla difensiva in ogni parte del mondo. Doveva puntare a ottenere in tutti i paesi occidentali una proroga, un rinnovo della capitalistica licenza di caccia al profitto.

Al termine del secondo conflitto mondiale le società europee erano infatti sconvolte da cima a fondo e le loro classi dirigenti, nel tentativo di non pagare un tributo ancora superiore, dovettero accettare loro malgrado il compromesso e l’inclusione delle classi subalterne. Ciò si ottenne solo attraverso notevoli concessioni rese possibili dalla teoria keynesiana: una politica economica guidata dallo stato a discapito del mercato (sino al limite di una vera e propria pianificazione), piena occupazione, e sempre più estese garanzie contro l’instabilità dei mercati.

Solo a questo condizioni, ossia mettendo il capitalismo al servizio di finalità sociali stabilite dalla politica, si riuscirono a creare i presupposti per la rinascita dell’economia capitalistica dalle ceneri della guerra, e fu possibile per le classi proprietarie riguadagnare la stanza dei bottoni della società industriale nonostante la cattiva prova di sé data nel periodo tra le due guerre.

Il capitalismo tuttavia non voleva e non poteva soddisfare tali rivendicazioni per sempre, e proprio nel momento in cui la classe operaia otteneva tale riconoscimento e sembrava aver raggiunto la propria massima potenza, era già cominciato il suo declino.

Alla fine degli anni sessanta la situazione inizia infatti ad assomigliare sempre più a quello che Michal Kalecki, in un articolo del 1943, aveva descritto come il momento in cui il modello keynesiano si sarebbe infranto contro la resistenza del capitale, contro una difficoltà che non era teorica, ma politica.

Kalecki inizia la sua analisi chiedendosi quale obiezione i datori di lavoro potessero rivolgere alla politica economica keynesiana, dal momento che essa assicurava loro una crescita continua e senza fluttuazioni. La sua risposta era che la piena e costante occupazione avrebbe generato instabilità sociale e insubordinazione, avrebbe comportato per il capitale il rischio che gli occupati diventassero arroganti, perché a un certo punto avrebbero dimenticato le difficoltà connesse alla mancanza di lavoro. A quel punto la disciplina sul luogo di lavoro e nella politica sarebbe potuta saltare. Perciò, continuava Kalecki – anticipando profeticamente il mai rimpianto Tommaso Padoa-Schioppa[1] – il capitale avrebbe dovuto favorire una disoccupazione strutturale, una sorta di monito che ricordasse agli occupati ciò che sarebbe potuto accadere se avessero esagerato nelle loro pretese.

Seguendo questa impostazione, è possibile interpretare la vicenda del capitalismo negli ultimi trent’anni come la vittoria delle élite sui tanti vincoli che erano stati imposti al capitalismo dopo il 1945 allo scopo di renderlo sostenibile. Nel dopoguerra il capitalismo aveva “fatto il bravo”, aveva distribuito (a denti stretti) ai lavoratori i loro guadagni di produttività, ma ciò si era verificato soltanto sino a che le classi subalterne avevano potuto far affidamento su una capacita di opposizione solida e su un mondo alternativo che incuteva timore.

Le acquisizioni sociali del dopoguerra in Europa (crescita economica, una ragionevole redistribuzione dei redditi, lo sviluppo del welfare state) sono legate anche alla capacità dei partiti operai di far fruttare una “minaccia indiretta” di lotta di classe. Come sottolinea Peter Sloterdijk nel suo Ira e tempo, fu sufficiente condurre lo sguardo dell’interlocutore sulle realtà del “secondo mondo”, per rendere chiaro al versante degli imprenditori che – anche qui da noi – la pace sociale aveva il suo prezzo.

Il patto sociale keynesiano si è esaurito una volta che gli amministratori del capitale hanno cominciato a trovarlo troppo costoso, rendendo necessaria la sua sostituzione. Il neoliberismo non è nei fatti nient’altro che questo: un ricalcolo dei costi necessari per mantenere la pace interna nei paesi capitalisti. La storia del capitalismo degli anni settanta del ventesimo secolo, incluse le continue crisi economiche succedutesi in quel periodo, è dunque la storia della fuoriuscita del capitale dalla regolamentazione sociale entro cui era stato costretto dopo il 1945. Una regolamentazione che in verità non aveva mai accettato.

Dal momento che i rapporti di forza sono cambiati, è ancora possibile (una volta recuperata la sovranità monetaria) riproporre le pratiche keynesiane, che furono elaborate in un contesto storico e geopolitico completamente diverso dall’attuale?


[1] «Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del XX secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità« [T. Padoa-Schioppa, Da Berlino e Parigi ritorno alla realtà, Corriere della Sera, 26 agosto 2003].

In evidenza

Toglietemi Tutto, ma non la mia TAV

Sabato 10 novembre si è svolta a Torino una imponente manifestazione, che intendeva richiamare alla memoria la marcia dei 40.000 quadri Fiat.

Oltre venticinquemila cittadini (tra imprenditori, sindacati, professionisti e politici) si sono riuniti davanti al palazzo della Regione Piemonte per esprimere il proprio sostegno all’Alta velocità e il rifiuto della decrescita.

Su Repubblica emerge con chiarezza la composizione della piazza:

Il sit-in è stato promosso dall’associazione “Sì Torino va avanti” e da “Sì lavoro”, legata a Mino Giachino, ex sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, che ha lanciato una petizione online arrivata a più di 65mila sottoscrizioni. Hanno aderito il Partito democratico, i moderati, Forza Italia e anche la Lega. In piazza anche i Radicali Fratelli d’Italia, che raccolgono firme per due referendum.

Alla testa di tutto, c’è la Confindustria:

Confindustria ribadisce “con forza l’assoluta necessità di completare i lavori della Tav”. E annuncia “che proprio a Torino convocherà un Consiglio generale straordinario allargato alla partecipazione dei Presidenti di tutte le Associazioni Territoriali d’Italia per protestare insieme contro una scelta, il blocco degli investimenti, che mortifica l’economia e l’occupazione del Paese.

È stato il trionfo di una cultura sviluppista, di coloro che si schierano a “favore delle infrastrutture” e contro “l’immobilismo ideologico del Movimento 5 Stelle”.

C’è solo una nota stonata, dicono alcuni: poca partecipazione da parte dei giovani.

Come evidenzia Davide Ferrario sul Corriere della sera, “al di là dei temi della mobilitazione, la cosa che più colpiva chiunque fosse lì o guardasse poi un’immagine della piazza era l’età dei partecipanti: una marea di teste grigie e di volti maturi, con una minima partecipazione giovanile”.

La spiegazione, madamin, è presto data: tra i Sì Tav non troviamo giovani non solo perché (si sa) sono bamboccioni disincantati e disinteressati, ma perché in Italia si è registrato un calo demografico tale che di giovani, oramai, non ce ne siano quasi più.

Nessuno ovviamente che abbia concesso il beneficio del dubbio, e che si sia chiesto se – forse – di giovani in piazza non ve ne fossero, perché non in sintonia con le parole d’ordine lì evocate.

Furto con scasso generazionale.

L’occidente è diventato oramai una civiltà-Alzheimer.

Ci si ricorda di qualcosa per qualche minuto, non di più. I social network e i media sono un buco nero della memoria, dove ci si sbarazza degli avvenimenti con la stessa rapidità con cui questi mano a mano si affastellano. Un attacco a Gaza dite? Di che si trattava? Facebook ha rubato il nostro… cosa? Trump ha detto… cosa? E i giovani hanno un problema di… di cosa??

A differenza di quanto viene continuamente ripetuto, non è tanto la scarsa volontà politica a contraddistinguere la gioventù flessibile e precaria di oggi, ma il fatalismo. Essa non soffre di uno scarso potenziale di ribellione, ma di un eccesso di gelo che si riflette nell’incapacità di riunire gli individui attorno a programmi di carattere generale.

Quella attuale è la prima generazione moderna a non essere affatto sicura di procedere verso un futuro migliore, guidata com’è dalla sensazione che potrebbe essere l’ultima a sperimentare un ambiente (sociale e naturale) non degradato in modo irreparabile.

La convinzione che l’attuale modo di produzione possa condurre a squilibri talmente rilevanti da pregiudicare il nostro livello di civiltà si sta diffondendo in tutte le nazioni occidentali.

Questa tesi ha l’appoggio di molti scienziati qualificati, i quali – nella diversità delle sfumature – condividono l’idea che in tempi brevi l’odierno modello di sviluppo economico possa diventare causa di un insanabile degrado della nicchia ecologica in cui vive l’umanità.

Fino alla metà del secolo scorso, l’atteggiamento è sempre stato “occhio non vede, cuore non duole”. Ma oggi l’occhio vede, eccome!

Quella contemporanea è così diventata una coscienza abituata ad accogliere la catastrofe come rumore di fondo.

La maggior parte di noi è consapevole di quel che sta accadendo, perlomeno a un livello sotterraneo; in superficie tuttavia manteniamo un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola tacita che impegna tutti a negare ciò che esiste.

In questo momento storico ci si accontenta di navigare a vista: non c’è rotta, ci si limita a cercare di schivare gli iceberg.

O meglio, sappiamo chiaramente che il nostro futuro assomiglia a una bomba ad orologeria sepolta, di cui non conosciamo il momento della detonazione, ma che fa sentire nel presente il suo ticchettio.

La nostra generazione ha interiorizzato quest’angoscia, si è abituata a sentire quel «ticchettio» dentro di sé.

Alla domanda che ci sentiamo porre spesso (“ebbene dimmi, chi sono coloro che fanno parte di questa fantomatica generazione?”) si è tentati di rispondere: quelli che sentono il ticchettio.

E all’altra domanda (“chi non ne fa parte in modo assoluto?”) la risposta potrebbe benissimo essere: quelli che non lo sentono.

Diniego.

Di fronte a queste preoccupazioni, gli interrogativi che ogni individuo si pone sono in fondo sempre gli stessi: è veramente un problema mio? Subirò davvero le conseguenze? In ogni caso, cosa posso farci?

Il più delle volte assorbiamo tutto e restiamo passivi.

Questo fenomeno viene definito dalla psicologia sociale diniego, ovvero quello stato mentale in cui sappiamo e allo stesso tempo non sappiamo qualcosa, quel meccanismo psicologico che coincide col rifiuto da parte del soggetto di riconoscere una realtà traumatizzante per il soggetto stesso.

Ciò che Gesù aveva assunto a motivo di perdono per coloro che lo crocefissero – “costoro non sanno quello che fanno” – nel nostro caso non vale.

Sappiamo cosa facciamo, e lo sappiamo con una chiarezza sconvolgente.

Siamo tutti per lo più consapevoli che le attività umane danneggiano gravemente l’ambiente. Ma questa informazione viene ricevuta e non digerita, affonda nella coscienza senza produrre cambiamenti.

Nei confronti di questo fenomeno le armi dell’illuminismo si rivelano spuntate.

Non si può più semplicemente agire con un intento razionalizzatore-illuministico (“se solo sapessero…”), perché questo stato di coscienza non può essere scalfito da alcun invito a vivere consapevolmente, ad avere il coraggio di conoscere (sapere aude!).

Ed è illusorio credere che a partire da un sapere discenda necessariamente un fare.

Cultura del narcisismo.

Contro il diniego, non dobbiamo invocare la «verità», che talvolta non riusciamo a confessare nemmeno a noi stessi, ma la «responsabilità» di fronte a quel che sappiamo. Come sottolineato da Hans Jonas, è oggi necessario elaborare una nuova etica che inglobi la responsabilità verso le generazioni future, a cui non possiamo consegnare un ambiente sempre più degradato e un modello sociale insostenibile.

Purtroppo, una società che ha perso interesse per il futuro non può essere molto attenta ai bisogni delle nuove generazioni.

La retorica giovanilistica che pervade la nostra società cela in realtà l’indifferenza di chi ha ben poco da trasmettere alla generazione successiva, e che vede come prioritario il diritto alla realizzazione di sé.

Da un lato le coppie che rimandano o rifiutano la maternità e la paternità (spesso, non lo nascondiamo, per indiscutibili ragioni pratiche), dall’altro i riformatori sociali che auspicano una “crescita di popolazione zero”, testimoniano il lento dissolversi di qualsiasi interesse per la posteriorità.

In questa situazione, il pensiero della nostra sostituzione definitiva e della nostra morte diventa insostenibile, e produce tentativi di abolire la vecchiaia e di prolungare la vita indefinitamente.

Come rilevato da Christopher Lasch, il timore che la nostra società sia senza futuro, se da un lato si basa su una visione realistica dei pericoli che ci attendono, dipende simmetricamente da una incapacità narcisistica di identificarsi con le generazioni future: vivere per il presente – vivere per se stessi, non per i predecessori o per i posteri – si è così trasformata nell’ossessione dominante.

La metropolitana dei nostri figli.

La cosa più interessante è che questa sostanziale indifferenza si presenta sotto la forma di preoccupazione premurosa per le generazioni future, per i loro bisogni. “Sì alla Tav, la metropolitana dei nostri figli”, recita uno degli slogan dei manifestanti accorsi in piazza.

Parole che rimandano a un immaginario distorto, alienato, in cui i figli “pendolari” – cioè costretti a emigrare alla ricerca di quel lavoro che non trovano nel proprio Paese – si confondono con le merci che andrebbero a riempire i container dei convogli ferroviari.

Il doloroso sradicamento del migrante, che quasi mai sceglie volontariamente di abbandonare la propria terra, è assimilato al semplice pendolarismo dell’impiegato Fiat che accetta un viaggio di mezz’ora per andare al lavoro.

Ma in fondo, quale è l’alternativa? Mettere a punto una politica industriale seria, che crei posti di lavoro in Italia, in modo che i propri figli non debbano diventare “pendolari” in Francia o Germania? Pensare a una pianificazione economica su basi democratiche, più compatibile con le istanze di conservazione dell’ecosistema rispetto a qualsiasi filosofia del “privato è bello”?

No, perché, tra le altre cose, l’“Europa” (altra parola-chiave che ricorre ossessivamente negli slogan dei Sì Tav), ovvero l’Unione Europea, è strutturalmente incompatibile con qualsiasi tipo di intervento statale in economia (come noto, la normativa comunitaria su concorrenza e aiuti di Stato limita moltissimo la capacità per un governo nazionale di decidere quali sono i settori strategici sui quali investire risorse). E poi questo andrebbe contro tutte le lezioni impartite da Repubblica, dal Corriere e in generale da tutta l’intellighenzia liberale.

E allora ben venga la schizofrenia della Confindustria, da sempre nume tutelare delle politiche di delocalizzazione, deindustrializzazione e di smantellamento dei diritti dei lavoratori, che si riempie la bocca con la parola “lavoro” per avvallare la TAV. E ha ragione chi elogia lo sviluppo delle infrastrutture, per poi fremere di indignazione quando si ventila la possibilità di nazionalizzare e magari potenziare quella rete infrastrutturale che in mano ai privati soffre di una condizione di abbandono (e non solo in Italia). Senza parlare della sanità, dell’istruzione, di vasti settori produttivi lasciati a se stessi.

In fondo l’importante è andare “avanti”. Verso quale destinazione? Non importa. Basta che il flusso di merci e persone sia efficiente, ininterrotto e se possibile sempre più frenetico. Non è necessario sapere quali merci viaggeranno sulla TAV, dove saranno prodotte, da chi e in quali condizioni. L’importante è che passino da Torino e non altrove, con una singolare forma di campanilismo che si contrappone al presunto integralismo localistico così frequentemente rimproverato al movimento No Tav.

Al pensionato togli tutto, ma non toccargli i cantieri.

Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi.

Giovanna Giordano (promotrice comitato Sì Tav)

Alla signora Giordano, presidente del Rotary Torino Est, che un metro di TAV in più significhi un reparto di ospedale chiuso o il tetto di una scuola che non viene messo in sicurezza, importa poco o nulla.

Quando i singoli si scoprono incapaci di provare interesse per quello che succederà nel mondo dopo la loro morte, aspirano a restare eternamente giovani e percepiscono la prospettiva di essere sostituiti da altri come qualcosa di insopportabile.
Gli individui appaiono così privi degli stimoli a sacrificarsi per il bene dei posteri e della società, regredendo a comportamenti infantili e rinunciando all’atto maturo per eccellenza, che è quello della trasmissione.

Questa attenzione esclusiva all’oggi ha ripercussioni di larga portata, sia quando si prende in esame la questione ambientale, sia quella delle sempre più degradate condizioni di vita quotidiana della maggioranza della popolazione.

Proseguendo sulla strada tracciata sinora, le generazioni future rischiano di non avere le stesse opportunità di sviluppo di cui noi abbiamo goduto, ed è verosimile che il pianeta che a esse trasmetteremo sarà privo di molte delle risorse di cui abbiamo beneficiato per conquistare la nostra prosperità.

La società attuale sta così di fatto colonizzando il futuro, proprio come tanti colonizzatori europei, in passato, hanno razziato le risorse dei paesi del mondo da loro assoggettati.

Stop that train?

Non è un caso che, dopo mesi passati ad urlare al montare del fascismo incarnato dal governo pentaleghista, il primo grande momento di “lotta al populismo” che ha trovato l’approvazione entusiasta dei giornali e dei partiti politici dell’opposizione […] si sia coagulato in un’opposizione esplicita al movimento sociale e ambientale più forte e radicato degli ultimi 20 anni: il movimento notav.

Perché il movimento notav è ciò che è andato più a fondo su cosa è il capitalismo e cosa è la democrazia ponendo domande all’altezza della crisi sistemica in cui siamo immersi. 

Cosa significa sviluppo? Chi decide sui territori? Come si usano le risorse comuni? C’è un’altra comunità possibile che non passi dalla mediazione dell’opinione ma dall’attivazione politica? 

Infoaut

Siamo noi, e lo saremo sempre di più, a pagare le conseguenze di politiche sbagliate, fatte in gran parte in nostro nome.

Invece di fuggire – a Londra, Berlino, Parigi, Milano, Bologna – invece di lasciare questo paese, assumiamoci un compito.

È ora di dire basta: le battute sul fatto che non avremo una pensione (una sanità, un futuro) hanno smesso di farci ridere.

È ora di iniziare a occuparci della questione seriamente. Sapendo che nessuno ci regalerà nulla, e che è il caso di iniziare a mobilitarsi.

Siamo una generazione di snodo in un deserto politico e sociale. Questi decenni vedranno probabilmente il mondo prendere direzioni fino a ieri impensabili. Nessun partito o movimento ci offrirà soluzioni pre-confezionate, ma starà a noi reinventarcele.

Starà a noi cercare di essere pronti, lottando contro il sistema ed evitando di adeguarci a esso. Per responsabilità verso i figli che abbiamo o che avremo: riannodare un filo che leghi le generazioni invece di metterle le une contro le altre.

Saremo più coraggiosi per i nostri figli di quanto non siamo stati per noi stessi e sfioreremo gli eccessi piuttosto che lasciar deludere e ingannare e tradire e illudere i nostri figli […] si sappia che noi saremo meno pazienti per i nostri figli di quanto non siamo stati per noi stessi. […] Ad ogni costo, a qualsiasi costo strapperemo i nostri figli a questa bassezza, a questa vergogna, a questa schiavitù […] E il fatto che noi non siamo serviti a niente, deve pur servire a qualcosa. […] Io stesso, che mi sono sempre difeso così male e che, per la verità, non mi sono per così dire mai difeso, vedo molto bene fino a che punto difenderemo i nostri figli, e so che li difenderemo fino in fondo; e che resisteremo […]. un particolare rimorso, un particolare onore, un singolare rimorso, sconosciuto a chi non è padre ci spinge in questo momento […] se quest’ultima battaglia è perduta, tutto sarà perduto.

C. Péguy, La nostra giovinezza

In evidenza

La fabbrica del partito

Il titolo non è originale, ma lo è l’intenzione. Il titolo è la parafrasi di un evento che ha già avuto luogo. Nel 2006 – per la seconda volta in dieci anni – Romano Prodi propone la propria candidatura alla carica di capo del governo, per continuare da presidente del consiglio quell’opera di demolizione dello stato sociale che molti anni prima gli era stata commissionata, e che aveva egregiamente svolto come ministro e funzionario. A tale scopo riunisce una improbabile e vacillante maggioranza di partiti diversissimi tra loro (che avrebbero nuovamente fatto durare il governo giusto un paio di anni…) battezzando il tutto non più come l’Ulivo, ma come l’Unione (che in effetti è nulla più che un’unione elettorale).

È in questa occasione che il nostro, a un anno dall’inizio della campagna elettorale, decide di inaugurare la “fabbrica del programma”. Un vero e proprio mondo alla rovescia, dal momento che le formazioni politiche dovrebbero per logica aggregarsi partendo da idee comuni, e non viceversa: un partito lo fai se condividi un programma, non fondi prima il partito e poi cerchi il programma…

Ma tant’è. D’altronde, basti pensare che oggi al governo siede un partito di maggioranza relativa che è composto da gente che non solo non la pensa nello stesso modo, ma a volte nemmeno si conosce.

Lo scopo di queste poche righe è quello di aprire una riflessione e un dibattito proprio sulla forma organizzativa, che non bisogna confondere con il programma, che vive di un dibattito e di logiche proprie.

La forma è altrettanto importante del contenuto, e forse oggi lo è ancora di più, dal momento che con il vecchio sistema è caduto anche il sistema dei partiti, senza che sia però venuta meno la necessità di una organizzazione strutturata (che la si voglia chiamare partito oppure no). In questo senso qualsiasi progetto politico in gestazione dovrebbe mettere all’ordine del giorno, ancora prima della “fase costituente” vera e propria, un serio dibattito sulle forme organizzative, e tarare le proprie ambizioni tattiche e strategiche sulle forme scelte.

Il fatto che un dibattito simile sia necessario è ormai riconosciuto da più parti. Come sottolineato da Paolo Gerbaudo in un recente articolo scritto per la rivista americana Jacobin, sono i fatti stessi a smentire chi dava per scontata la morte della forma partito, magari accompagnata dalla “fine della storia” in salsa neo-liberale. Che piaccia o meno, i protagonisti della politica continuano a essere i partiti (e il fatto che alcuni di essi preferiscano definirsi “movimenti” è interessante, ma non decisivo).

Incominciamo con il chiarire come non ci sia una sola formula corretta, che permetta di scartare tutte le alternative.

Le variabili da combinare e di cui tener conto sono infatti l’esperienza (di chi le realtà di partito o di movimento, piccolo o grande, le ha vissute), la preparazione (di chi le realtà di partito o di movimento, piccolo o grande, le ha studiate) e l’attenzione alle dinamiche del presente (che è il fattore determinante per comprendere cosa oggi funzioni e cosa no, che cosa possa funzionare a un determinato stadio e cosa a un altro).

Se la confusione all’inizio del dibattito sarà molta, come è normale che sia, il risultato finale dovrà però essere limpido, perché lo scopo sarà precisamente sgombrare il campo da modelli e meccanismi che possano nuocere al progresso e alla solidità del progetto.

Il fatto che oggi non ci siano quasi più partiti politici di stampo “classico” non vuole necessariamente dire che il partito, ossia l’organizzazione strutturata con un minimo di rigidità, non sia più performante. Non a caso allo stato attuale delle cose hanno (bene o male) retto alla botta dell’ultimo decennio solo la Lega Nord (l’ultimo partito della Prima Repubblica, nato nel 1987) e il PD, recente di formazione, ma erede di vecchie strutture e logiche partitiche.

Al contempo occorre fare i conti con tre diversi modelli (Craxi, Berlusconi e Putin) vincenti e relativamente recenti, che del partito hanno volentieri fatto a meno, non limitandosi a ridurre i partiti a strutture flessibili, ma considerandoli una vera e propria zavorra di cui liberarsi. Si tratta certamente di tre “uomini forti”, ma bollarli come bonapartisti senza analizzare le loro prassi politiche sarebbe un errore, dal momento che (a loro modo) sono risultate vincenti.

Un punto di partenza per la trattazione dei modelli organizzativi potrebbe essere il partito gramscianamente inteso, con un impianto forte e strutturato. È una proposta di quasi cento anni, ma in questi cento anni ha dato i suoi frutti.

I tre esempi italiani di questo genere di organizzazione sono stati il Partito fascista, il Partito comunista del dopoguerra e la Democrazia cristiana. Sebbene questo accostamento possa risultare istintivamente indigesto, la forzatura è necessaria ed è dettata dal fatto che prima degli anni trenta i partiti in Italia erano quasi esclusivamente circoli di simpatizzanti che preparavano liste di notabili da candidare, e facevano a botte (anche in modo sanguinoso) nelle campagne elettorali.

Il modello organizzativo delle tre mastodontiche strutture citate è quello della filosofia della prassi, interpretando il termine prassi non come un sinonimo di azione e/o lavoro, ma come praxis (neo)idealistica, intesa come procedura antropologico-politica (nota tanto a Gramsci quanto a Gentile) di elaborazione e produzione di una soggettività collettiva.

È precisamente quest’ultimo a fornire un apporto decisivo nell’organizzare in modo capillare il partito fascista, il cui massimo studioso in quegli anni fu proprio Palmiro Togliatti che – toccata con mano la fragilità del PCdI nato nel 1921 – dall’esilio in Unione Sovietica ebbe il tempo necessario a riorganizzare le forze per non sbagliare il tiro nel dopoguerra.

E il tiro non lo sbaglierà, a tal punto che la solidità del nuovo PCI costringerà gli altri partiti ad adeguarsi e a dotarsi di strutture solide (ed estremamente costose), a cominciare dalla DC, nella quale viene commissionata a Fanfani (esponente formatosi nel partito fascista) l’organizzazione di una delicata marcatura a uomo delle case del popolo, a cui si decide di affiancare capillarmente le inedite sezioni democristiane.

Lo scheletro di queste tre formazioni viene in parte ripreso dagli altri partiti della Prima Repubblica, dei quali però solamente PSI e MSI si doteranno di sezioni e sedi, senza tuttavia riuscire a raggiungere una capillarità di strutture e soprattutto di sovrastrutture (è bene tener presente che il “partito mastodonte” della prima repubblica si regge anche grazie alle sovrastrutture collegate, dalle cooperative di lavoro, ai giornali, alle associazioni sindacali, fino ai circoli ricreativi e ai centri studi).

Un altro interessante caso di studio sono i movimenti extraparlamentari: in certi casi il clima di spontaneismo ha influenzato in modo negativo l’organizzazione, in altri, invece, proprio il fatto che alcuni fondatori arrivassero dai grandi partiti ha comportato che sapessero come impostare le strutture, anche facendo fronte alla penuria di mezzi.

Al di là del contenuto ideologico, i tre esempi da considerare sono Servire il popolo, anomalo caso di movimento extraparlamentare degli anni settanta (costruito sulla base del modello PCI degli anni cinquanta, con tanto di mini sovrastrutture embrionali e di cassiere idrovora), Lotta continua e Ordine Nuovo, altri due gruppi specializzati nell’approvvigionamento dei fondi, ben organizzato come movimento il primo, e ben organizzato nelle tappe per arrivare a movimento il secondo (centro studi – formazione  quadri – movimento politico).

Insomma, anche guardando al passato e non al presente le vie da studiare sono molteplici.

Gli ultimi anni hanno visto numerosi tentativi di dare vita a un soggetto politico rappresentativo di chi vorrebbe declinare “a sinistra”, o se preferiamo in senso socialista, i temi della sovranità nazionale e del cosiddetto “populismo”, che altro non è che una domanda collettiva di protezione dagli effetti nefasti della globalizzazione.

Quasi tutti questi tentativi si sono arenati in breve tempo.

Oppure hanno creato una nuova, piccola (pur dignitosissima e benemerita, sia ben chiaro) nicchia ideologica in un universo come quello degli interessati alla politica, che oggi è a sua volta un “micro-habitat” che coinvolge una minoranza sparuta di persone.

Le ragioni sono molte.

Tutte queste esperienze hanno focalizzato una grande attenzione sull’elaborazione programmatica (riecco la “fabbrica del programma”) e su analisi teoriche spesso brillanti, che però sono rimaste confinate nella nicchia di cui sopra.

Il lavoro organizzativo, ivi compreso il dibattito sulle forme di organizzazione, è stato generalmente trascurato, anche perché – oltre a essere meno gratificante e a dare poca visibilità a chi lo porta avanti – rappresenta un “mestiere” (diremmo quasi un “artigianato”) difficile e ormai in gran parte dimenticato. In questo senso fa riflettere il fatto che anche Tremonti e Fini abbiano tentato di costruire dei partiti e non ci siano riusciti, pur disponendo di risorse senza dubbio notevoli.

D’altro canto non dobbiamo nasconderci che viviamo un periodo difficile, un’epoca che segue la sconfitta di tutti gli esperimenti novecenteschi che hanno tentato in qualche modo di porre un limite al dispiegarsi incontrollato della logica del capitale, e in qualche caso anche di portare al potere le classi dominate. Al proposito Gerbaudo non sbaglia a ricordare che la forma-partito è stata a lungo una “arma dei deboli”, che rispetto alle classi dominanti dispongono di meno luoghi fisici e istituzionali per incontrarsi e coalizzarsi.

Chi parla dell’attuale congiuntura come di una finestra favorevole per la coltivazione e l’organizzazione del dissenso secondo noi scambia un (innegabile) sentimento generale di rabbia e di sfiducia per la disponibilità a mobilitarsi in nome di una qualche causa articolata. Gli scontenti abbondano oggi più che mai, e li si possono trovare con facilità in qualsiasi ufficio, fabbrica o bar. Ma una cosa è lo scontento che, nel migliore dei casi, è riuscito a raggiungere un buon grado di consapevolezza e perfino di formazione ideologica autodidatta, altra cosa è il militante in potenza, disposto a sacrificarsi e a lottare. Si tratta quindi di un dissenso passivo, che si esprime elettoralmente, con l’astensione o il voto ai partiti “populisti” già esistenti.

Lo spirito del tempo è fatto di apatia e di analfabetismo politico di massa, per cui sarebbe – ad esempio – ridicolo parlare ai propri amici e colleghi di “socialismo”, perché sarebbero costretti a consultare un dizionario, o ancor peggio lo ricondurrebbero all’esperienza di Craxi e dei suoi quaranta ladroni.

Al proposito però qualsiasi atteggiamento moralistico sarebbe fuori luogo: non è la vigliaccheria la causa principale di questa apatia cronicizzata.

Anche in questo caso è utile guardare al passato per schiarirsi lo sguardo. Chi scrive ha avuto la fortuna di dialogare con diversi protagonisti delle lotte di fabbrica degli anni sessanta-settanta, per intenderci gente licenziata sei o sette volte di seguito per ragioni politiche o sindacali; certamente stiamo parlando di generazioni dotate di tutt’altre doti di resistenza fisica, psicologica ed etica. Ciò non toglie che chi è stato licenziato sei volte per avere scioperato evidentemente è stato assunto altrettante volte senza grossi problemi.

Oggi, dopo anni di crociate anti-sindacali, di smantellamento dei diritti sociali e di disoccupazione di massa, “solo i pazzi scioperano” (per citare uno dei veterani di cui sopra). Lo sbilanciamento dei rapporti di forza tra dominati e dominati mina alla base qualsiasi antagonismo serio. Se si prende atto di ciò, non bisogna escludere la possibilità che l’epoca della “seconda Restaurazione” (Badiou) duri decenni, e non resti che coltivare dignitose nicchie di dissenso e affinare gli strumenti di analisi e di lotta per chi verrà dopo.

Chi non si vuole rassegnare del tutto potrebbe partire dalle esigenze materiali del “popolo”, in altre parole dalla vituperata ma spesso lucida “pancia”, ancor prima che dal “cervello”. Non si tratta di anti-intellettualismo: è solo una delle possibili conclusioni di una analisi spietata del presente.

 

 

In evidenza

Fat tax. Rubare ai poveri per ingrassare i ricchi

Vorremmo sottoporre ai lettori alcune riflessioni a partire da un piccolo “caso di studio”: il tema elettorale della Flat Tax. E soprattutto vorremmo dare qualche spunto su come affrontarlo da sinistra.

Partiremo dunque da una proposta evidentemente di destra (definita quantomeno come forza elettorale; non iniziamo a discutere se destra e sinistra esistono ancora, vi prego, prima di finire l’articolo) per capirla e contrastarla.

A metà articolo troverete una cesura, che separa radicalmente due prospettive: laddove infatti la disamina dettagliata di una politica è un momento necessario per capire se rigettarla, non è detto che l’approccio analitico sia il modo migliore di contrastarla. In questa seconda sezione faremo pertanto qualche riflessione su come combattere una politica a noi indigesta.

Sia chiaro: non vogliamo dire la parola definitiva sulla Flat tax e men che meno risolvere i (tanti) problemi della sinistra in questo banale articoletto. Non abbiamo le “istruzioni per l’uso”, sebbene questa sia la forma che provocatoriamente abbiamo adottato. Non vogliamo insegnare niente a nessuno. Vorremmo discutere assieme qualche spunto, eclettico, di riflessione.

 

ATTO PRIMO

Come affrontare un tema, dal punto di vista analitico, passo dopo passo.

 

  1. Definire concettualmente l’oggetto

Cosa vuol dire Flat Tax, nelle sue accezioni?  Essenzialmente, per Forza Italia e Lega, un’aliquota unica per tutti coloro che sono soggetti a imposizione fiscale (cittadini e imprese), che stanno al di sopra di una “no tax area”. Ad esempio, si può decidere che sopra i 12mila euro di reddito annuo, si applichi una aliquota fissa del 23% su quanto supera questa soglia (proposta di Forza Italia).

Per questo viene definita “flat tax“, ossia letteralmente “tassa piatta”, o meglio tassa “fissa”. Come le offerte “flat” delle nostre compagnie telefoniche.

Si tratta quindi di un sistema proporzionale (ognuno paga in proporzione a quanto guadagna), ma non progressivo (ognuno paga la stessa identica percentuale, vale a dire che i ricchi non pagano percentualmente più dei poveri).

 

  1. Analizzare il tema e la proposta

Analizzare la proposta vuol dire sviscerarne gli effetti pratici, le ricadute, le coperture finanziarie.

Le differenze con la situazione odierna sarebbero per sommi capi queste: scomparirebbero le aliquote attuali superiori al 23%, ossia il 27%, il 38%, il 41% e il 43%; la “no tax area” passerebbe da circa 8 mila euro a 12 mila.

Abbiamo detto che la “tassa piatta” è una tassazione proporzionale, ma non progressiva. Banalizziamo e semplifichiamo, per capire meglio. Al di sopra di questa nuova soglia di 12mila euro, si paga sempre il 23%. 230 euro di tasse su 13mila euro di reddito, cioè il 23% di 1000 euro (13mila meno 12mila, uguale 1000 euro), ad esempio. 230mila euro di tasse su un milione e 12 mila euro.  Sono “conti della serva”, per capire il concetto.

tasse redditoSecondo Il Messaggero – giornale sicuramente non di sinistra – “Chi ci guadagna e chi ci perde? […] a perderci non sarebbe nessuno”. Poi aggiunge, però: “I vantaggi si fanno più evidenti man mano che il reddito aumenta”. Oltre duemila euro di tasse risparmiati, rispetto a oggi, per chi ha un reddito di circa 28mila euro. Poi le tabelle si fermano, per pudore, a 300 mila euro di reddito: chi li guadagna, beato lui, “ne verserebbe circa 83 mila in meno al fisco”.

 

  1. Mettere criticamente il punto 2 alla prova dei fatti

Lo stesso quotidiano evidenzia un punto problematico: “Poco si dice sulle coperture (complicate) […] Andrebbero trovate attraverso ulteriori tagli alle detrazioni e deduzioni, riduzioni della spesa pubblica e, secondo le intenzioni, almeno in una prima fase con una serie di condoni fiscali. Poi la scommessa è che ci sia una consistente emersione e un’accelerazione della ripresa che possa aumentare le entrate fiscali”.

Meno tasse per un bel po’ di gente significa meno entrate nel bilancio pubblico. E in tutto questo, la proposta elettorale trascura volutamente almeno tre vincoli: il vincolo del pareggio di bilancio che il Governo Monti inserì in Costituzione; il vincolo del rapporto del 3% tra deficit e Prodotto Interno Lordo (i famosi parametri di Maastricht); infine, ricordiamo una prescrizione costituzionale eminentemente fiscale, ossia che la tassazione deve essere progressiva.

Sono tutti e tre vincoli ideologici (non dovuti a una qualche legge scientifica di natura): i primi due sono dogmi neoliberisti, legati alla cessione di sovranità operata in favore dell’Unione europea. Il terzo è frutto di un compromesso ideologico, in chiave popolare, tra le forze che hanno fondato la repubblica italiana: progressività nella tassazione significava politiche popolari, redistribuzione della ricchezza prodotta, solidarietà sociale. Parole che nel contesto del compromesso keynesiano del dopoguerra potevano piacere tanto ai democristiani quanto ai comunisti. I tempi sono cambiati, ma si spera che questa prescrizione costituzionale di progressività possa creare qualche problema a chi vuole una “tassa piatta”.

 

  1. Leggere i contenuti ideologici sottesi alla proposta (per combatterli)

Meno soldi per un bel po’ di gente vuol dire meno entrate fiscali; e meno entrate fiscali evidentemente significa meno servizi pubblici.

Chi utilizza i servizi pubblici? I ceti medi e bassi, tendenzialmente. Quindi per finanziare gli 83mila euro di risparmio per chi guadagna 300mila euro di reddito annuo, verranno tagliati mezzi di trasporto, chiusi ospedali e presidi sanitari pubblici, impoverite le scuole in cui i privilegiati non mandano i loro figli. Un’enorme opera di redistribuzione verso l’alto: rubare ai poveri e ai meno ricchi, per dare a ricchi e ricchissimi.

La replica da destra è sempre la stessa: “meno soldi in tasse permette di far ripartire l’economia, i consumi dei privati e gli investimenti delle aziende, che – ingrandendo la “torta” dell’economia – porteranno a entrate maggiori per lo Stato”.

Dobbiamo avere la forza di dire che ciò è in gran parte falso e del tutto ideologico. Ci sarebbe molto da discutere sul ruolo dello Stato, che è il primo (e unico) attore capace di contrastare un ciclo economico negativo, ampliare l’attività economica tramite investimenti pubblici, rassicurare i privati rispetto ai consumi e agli investimenti, sostenere l’attività delle aziende con le infrastrutture appropriate.

I privati lasciati a loro stessi, se ricchi, continueranno a investire in attività finanziare: più rischiose, ma con una possibile rendita molto alta. I privati non così ricchi, invece, avranno qualche soldo in più da spendere presso le strutture sanitarie private che i ricchissimi metteranno gentilmente a disposizione, per ovviare alle disfunzioni della sanità pubblica impoverita. Altra geniale operazione indiretta di redistribuzione a favore dei dominanti.

Come insegnava Keynes, i poveri hanno una propensione al consumo maggiore dei ricchi: per vivere decentemente devono spendere un’alta percentuale di quanto guadagnano. E questa riforma “piatta” darebbe ai subordinati cifre ridotte, ben poco decisive nel rilanciare i loro consumi. Soprattutto perché, come dicevamo, quei soldi risparmiati in tasse i poveri (e il ceto medio impoverito) li dovranno spendere per supplire alle carenze del pubblico: trasporti, sanità, scuola, sopra tutte le altre cose.

Come insegnava sempre Keynes, le aspettative sono fondamentali in economia, anche per gli imprenditori: non aprirò fabbriche di ombrelli se sono convinto che per almeno dieci anni non pioverà. Anche se mi regalassero dei soldi, non li userei per la fabbrica di ombrelli, ma per altro. Quindi se mancano le infrastrutture, se non c’è spazio di business per un determinato settore o un piano industriale per l’attività economica del Paese, ben difficilmente l’imprenditore impiegherà quegli 83mila euro risparmiati per attività produttive. Li investirà in borsa o in beni di lusso (che hanno ricadute occupazionali molto ridotte).

È quindi evidente a chiunque voglia interessarsene che la proposta di “flat tax” è un crimine sociale, una scandalosa redistribuzione dal basso verso l’alto.

 

INTERLUDIO

 

Ora, esaurito questo semplice esercizio analitico sulla flat tax, dimenticatelo.

Quello che infatti abbiamo fatto sinora è smascherare la proposta di qualcuno per bloccarla. Ma la proposta era già stata lanciata nell’agone politico e, soprattutto, mediatico. Nulla si dice, quando si parla di “flat tax“, dell’impressionante elusione fiscale dei grandi colossi, della piccola evasione (a volte, consentiteci di dirlo, legata alla sopravvivenza) di tantissimi attori economici medi e piccoli, della rendita finanziaria, delle delocalizzazioni delle imprese, del ritardo nell’innovazione tecnologica…

Il problema è definito in modo semplice e appetibile al grande pubblico: le tasse. La soluzione è evidente a chiunque non si fermi a riflettere: abbattere le tasse. Il mezzo è semplicissimo da veicolare: un’aliquota unica. È un capolavoro comunicativo.

Una volta che la boutade (vera o falsa, intelligente o idiota) è stata avanzata, occupa il centro della scena, conquista l’immaginario, orienta l’attenzione degli oppositori, li costringe a usare quel linguaggio. La “scandalosa redistribuzione per impoverire i poveri e arricchire i ricchi” non rappresenta inoltre nulla di nuovo rispetto a quanto costantemente avvenuto negli ultimi 30-40 anni. La nostra posizione, da sinistra, è stata, nella prima sezione, analitica, reattiva e difensiva. Tre volte debole. Finirà come negli ultimi 30-40 anni.

Il salto di qualità che la sinistra deve fare è essere capace di passare all’attacco.

Trascureremo volutamente dettagli come le definizioni di cosa sia sinistra, di cosa voglia dire fare politiche di sinistra, di discutere della sua stessa esistenza. A volte bisogna andare al concreto delle cose e da qui trarne concetti, piuttosto che il contrario. Inoltre, in un momento come questo, addentrarsi in discussioni sottili su purezze ideologiche è più controproducente e dispersivo che utile.

Non è detto che per immaginare un mondo migliore di questo si debba determinare in ogni dettaglio quello che sarà (e nel mentre morire attendendo la perfezione). Come dicevano i latini, primum vivere, deinde filosofari.

 

ATTO SECONDO

Dalla tassa piatta al re-framing: piccole regole per passare all’attacco.

 

  1. La verità non rende liberi

È l’assioma da cui discende tutto il discorso che segue. I fatti e gli argomenti razionali sono necessari: vengono prima (come analisi preliminare) e dopo (nella scala di priorità) rispetto all’azione politica. Ma non sono ciò che conta di più: nella società della comunicazione quello che è centrale è come un messaggio viene veicolato nella sfera pubblica.

Gli argomenti spesso sono un problema; quali gestire e come comunicarli? Abbandonarli significherebbe giocare con le armi (sporche) del nemico, sarebbe incoerente e inutile; tuttavia, essi devono perdere la posizione centrale. Il motto evangelico per cui “La verità rende liberi” (Gv, 8, 32) non deve più essere il mantra della sinistra: non è infatti (solo) con le statistiche (vere) sulla criminalità in calo, che si contrasta un senso di insicurezza diffuso (vero o percepito).

Come evidenziato tra gli altri da Peter Sloterdijk, la coscienza moderna sembra sancire il divorzio tra ciò che si sa e ciò che si fa: e di fronte alla dilagante falsa coscienza illuminata, non può essere attuato nessun meccanismo di smascheramento-emancipazione.

Ciò che Gesù aveva assunto a motivo di perdono per coloro che lo crocefissero – “costoro non sanno quello che fanno” – nel nostro caso non vale. Sappiamo cosa facciamo, e lo sappiamo con una chiarezza sconvolgente. Siamo ad esempio tutti per lo più consapevoli che le attività umane danneggiano gravemente l’ambiente; ma questa informazione viene ricevuta e non digerita, affonda nella coscienza senza produrre cambiamenti.

Nei confronti di questo fenomeno le armi dell’illuminismo si rivelano spuntate. Non si può più agire con un intento razionalizzatore-illuministico: “se solo sapessero…”, perché questo stato di coscienza non può essere scalfito da alcun invito a vivere consapevolmente, ad avere il coraggio di conoscere (sapere aude!) . Ed è illusorio credere che a partire da un sapere discenda necessariamente un fare.

Bisogna prenderne atto e operare uno spostamento dei pesi e degli accenti su facoltà, capacità, virtù che l’ideale illuminista non aveva mai preso in considerazione.

 

  1. Il fine deve essere utopico, i mezzi realistici

L’uomo politico deve sapere che gli impulsi che danno il là all’agire politico originano da pulsioni scomode. Questa consapevolezza consegna alla riflessione politica – come materia prima da trattare – non le istituzioni, le Costituzioni, gli apparati normativi, ma le pulsioni e le passioni, un materiale infiammabile e intrattabile.

Più che i fatti e le verità, per portare le persone dalla propria parte serve qualcosa che trascini. Un’emozione, una morale, un’utopia. L’utopia è affascinante, complessa, motivante. Ma inviluppata nell’indefinitezza e nella complessità. La sua definizione sfugge alle stesse persone che la sognano.

Come contagiare, allora, altre persone con la propria utopia?

Con la semplicità, l’immediatezza. Le armi della persuasione devono veicolare messaggi complessi in maniera semplice, perché devono raggiungere tutti.

Più un messaggio è grezzo, più funziona: questo è il primo dei segreti della destra neoliberista (e anche di quella social-nazionalista). Hanno una visione dell’uomo semplice, gretta e piatta, ma non del tutto sbagliata. Da lì discende una politica del consenso che funziona.

Bisogna iniziare con slogan e battute a effetto, quindi spiegarli nella maniera più semplice possibile. Infine passare all’analisi, che chiarisce come mai ci siamo sentiti istintivamente d’accordo con quello slogan. L’esatto contrario di quello che la sinistra fa oggi: analizza tutti i risvolti di una situazione, poi cerca di spiegarla con linguaggio perlopiù tecnico, infine conia slogan poco appetibili.

 

  1. Le paure rivelano bisogni reali

Una visione grezza dell’uomo è parziale, ma non falsa: le persone hanno bisogni reali, che sono sopravvivere, mantenersi in sicurezza, autorealizzarsi. Non c’è bisogno di studiare la piramide di Maslow per condividere questa affermazione. I bisogni delle persone sono quindi il punto di partenza per ogni interlocuzione politica. Non le nostre idee, ma le loro esigenze, sono al centro.

Mettersi al servizio delle persone è profondamente di sinistra. Ma purtroppo molta sinistra ormai vive ai Parioli e non capisce la rozzezza delle proteste anti-immigrati della provincia veneta.

Questo deve cambiare. Non nel senso che ci si deve adeguare: ma si deve ascoltare, comprendere. Considerare le vive percezioni di insicurezza, e non solo le fredde statistiche sui furti in calo. Immedesimarsi in persone che non hanno le nostre barriere psicologiche, ne hanno altre (e sia chiaro, noi abbiamo le nostre, spesso ancor più subdole e pietrificanti).

Ripartire dalle paure legate ai temi concreti ci aiuterebbe a fare quanto al punto G e al punto H.

 

  1. Dobbiamo smettere di disprezzare le paure delle persone

Quando le opinioni e le paure delle persone medie non ci piacciono, o sono irrealistiche o oggettivamente stupide, non di meno sono vere per loro. Addirittura aspettative irrealistiche potrebbero realizzarsi: è la profezia che si autoavvera di Merton. Ciò implica che dobbiamo trattarle con rispetto, perché possono essere vere o percepite come vere; e non è detto sia così utile impiegare argomenti esclusivamente razionali (vedi punto A) per confutarle.

Questo è il secondo punto forte della destra neoliberista: cavalcare i bisogni inevasi e le paure dei cittadini è più redditizio che intercettarli e dialogare con loro. Paga dal punto di vista elettorale. Dal punto di vista sociale porta alla distruzione che abbiamo sotto gli occhi.

La sinistra, al contrario, ha ritenuto questi bisogni poco più che vaneggiamenti idioti e senza senso. “Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori!” diceva Corrado Guzzanti. A sinistra dobbiamo smettere di ragionare così, anche se non è facile.

 

  1. Prendere sul serio i bisogni delle persone non significa rinunciare a una proposta

Anzi. La politica è innanzitutto un mestiere di proposta, nel suo senso più nobile, per permettere la convivenza civile delle persone (dal compromesso, al cambiamento utopico). I bisogni vanno intercettati, quindi problematizzati e dialettizzati.

Non è sempre facile. Ma rispondere a bisogni reali significa guadagnare affidabilità e quindi divenire un punto di riferimento e andare al concreto, tutti assieme (vedi oltre i punti H e L). Certo, se si vive alle Vallette o a Quartoggiaro è più facile essere credibili nel proporre questo ragionamento; se si abita a Milano in Via Montenapoleone o in zona Colli a Bologna, è più difficile capire i bisogni delle persone, fare proposte realistiche ed essere considerati interlocutori credibili. Iniziare a prendere i mezzi pubblici potrebbe già essere un inizio.

 

  1. La proposta è il re-framing

Qui siamo alla chiave di volta della strategia che proponiamo.

Senza abbandonarsi a scemenze psicologiste (sullo stile della programmazione neurolinguistica), definiamo il re-framing come capacità di cambiare il modo di percepire una situazione, e quindi cambiarne il suo significato, attribuendogli una diversa immagine.

In questo caso dobbiamo usare l’inglese, poiché è la lingua con cui tecnicamente è stato definito il concetto di framing, traducibile in italiano come “cornice concettuale” o “cornice cognitiva”. Tversky e Kahneman ci hanno vinto un Nobel per l’economia (il solo Kahneman, in verità). Il professor Lakoff ci ha costruito un’intera teoria della comunicazione politica.

Quello che è sicuro è che la cornice definisce il contenuto. Ce lo dicono gli esperimenti di psicologia sociale. Uno degli esempi classici è questo: una malattia provocherà la morte di circa 600 persone. A due campioni di persone viene sottoposta la scelta tra due programmi per fronteggiare l’epidemia. Al primo campione si dice: il programma A, salverà 200 persone; il programma B, ha 1/3 di probabilità che 600 persone vengano salvate e 2/3 di probabilità che non si salvi nessuno. Il 72% delle persone sceglieva il programma A. A un secondo campione, veniva presentato lo stesso problema, ma con una diversa formulazione della modalità d’intervento: col programma C, 400 persone moriranno; con il programma D, c’è 1/3 di probabilità che nessuno morirà e 2/3 di probabilità che muoiano 600 persone. Il 78% preferiva la soluzione D. Basta riflettere un momento per capire che i piani terapeutici A e C sono identici e così pure B e D: essi inducono frame diversi per effetto della differente formulazione.

Dobbiamo quindi disinnescare le “bombe” che sono nascoste dietro l’uso di parole-chiave che definiscono le situazioni. “Carico fiscale” o “pressione fiscale” hanno un senso di pesantezza intrinseco, pre-razionale. “Contributo fiscale” dà già un taglio diverso, legato alla partecipazione comunitaria del cittadino e non al balzello che grava sul povero contribuente.

Iniziamo ricordandoci, per esempio, che è bene usare l’italiano per togliere fascino alle proposte, dato che siamo un popolo da sempre esterofilo. “Tassa piatta” suona decisamente meno accattivante di “flat tax“, non trovate? Per gli anglofoni: per rovesciare tale proposta, potremmo dire che noi preferiamo la “fair tax“.

Fuor di battuta, uno dei piani su cui esercitare il re-framing è proprio quello lessicale, come abbiamo visto. Non vogliamo arrivare a dire che le tasse sono “una cosa bellissima” (citando Padoa Schioppa…), però sono ciò che rende possibile avere ospedali, scuole, autostrade, ferrovie. Che altrimenti non ci sarebbero, perché i privati senza Stato non sarebbero capaci di rispondere a questi bisogni sociali.

Un’opportunità di re-framing si è presentata nel 2009, quando in Europa infuriava la polemica tra cicale (i paesi del sud Europa in crisi per i debiti) e le formiche (i paesi “sani”, come la Germania). In tale contesto, Yannis Varoufakis ha esercitato bene il re-framing:

 

La storia dominante in Europa oggi è che, nelle notti ghiacciate di questo terribile inverno, le cicale meridionali bussano alle porte delle formiche del nord, col cappello in mano, in cerca di un piano di salvataggio dopo l’altro. […] se vogliamo utilizzare il racconto di Esopo per capire la débacle della zona euro, è meglio mettere le formiche e le cicale al posto giusto! Le Formiche Greche: coppie che lavorano duro, con due lavori a bassa produttività […] ma che tradizionalmente trovavano difficoltà a far quadrare il bilancio a causa di bassi salari, sfruttamento delle condizioni di lavoro, […] forti pressioni da parte delle banche e altri a prendere prestiti in modo da poter dare ai loro figli quello che la TV raccomanda che a nessun bambino dovrebbe mancare […] Le Formiche Tedesche: lavorano duro ma sono relativamente povere […] Il loro lavoro sempre più produttivo e i salari bassi stagnanti, hanno fatto sì che i tassi di profitto in Germania siano saliti alle stelle e siano stati convertiti in surplus […] Una volta creati, questi surplus hanno ricercato rendimenti più elevati altrove, a causa dei tassi di interesse bassi indotti in Germania dalle stesse eccedenze. E’ stato a quel punto che le cicale Tedesche (gli inimitabili banchieri il cui scopo era quello di massimizzare i guadagni nel breve periodo con uno sforzo pari a zero) hanno guardato a sud per far buoni affari. […] Cosa succede quando le inondazioni di soldi fluiscono inaspettatamente? Si formano le bolle. […] Arrivata la crisi, alle formiche Tedesche è stato detto che dovevano stringere la cinghia ancora una volta. Gli è stato anche detto che il loro governo stava mandando miliardi al governo Greco. Dal momento che non gli è mai stato detto che al governo Greco non è consentito usare questo denaro per attutire il colpo alle formiche Greche […] sono rimasti fortemente perplessi: perché stiamo lavorando più duro che mai, e portando a casa meno che mai? Perché il nostro governo invia il denaro alle cicale Greche e non a noi? […] La nostra unica opzione: sovvertire la storia dominante. Riconoscere la coesistenza di formiche trascurate e cicale troppo viziate in tutta la zona euro è un buon inizio.

 

  1. Dal re-framing al framing?

Al punto F però siamo ancora su un piano reattivo. Come costruire un frame, per usare un linguaggio gramsciano, egemonico?

Probabilmente il nostro non è il momento storico giusto per poterlo fare compiutamente (vedi punto N); tuttavia, cerchiamo almeno come riferimento un modello a suo modo vincente. Se infatti prendiamo a modello un vincente, e alla fine perdiamo, saremo sconfitti, ma non perdenti. Se non abbiamo nessun modello (perché a sinistra ci piace essere nichilisti) allora saremo perdenti a priori, emarginati che non si sono mai battuti.

Barack Obama veniva da un’onda lunga conservatrice che durava dai tempi Reagan (forse di Nixon?) e obiettivamente non è stato in grado di contraddire lo “spirito dei tempi”. Da Presidente non ha concluso molto; ma perlomeno ha suscitato forze nuove e genuine e ha comunque conquistato il potere, costruendo consenso intorno a un framing rivoluzionario per gli Stati Uniti del XXI secolo, basato su una parola semplice: “Hope”. Speranza in risposta alla più grave crisi economica di tutti i tempi e alla minaccia terroristica, congiuntura che mai gli USA avevano vissuto.  Insomma, il terreno non sembrava propizio.

Lakoff, a proposito proprio dell’Italia, disse realisticamente che ” i politici che vincono sono coloro che controllano le menti, e gli esseri umani non sono razionali. Oggi ciò che conta è far condividere agli altri la propria morale”. “Ragionamenti molto complessi” sono inefficaci se non propongono “un sistema morale alternativo”.

Quindi bisogna tenere in conto l’abilità oratoria e di re-framing di Obama per spiegarne il successo, senza dimenticare una azione dal basso che lo ha sostenuto sia a livello digitale (con un buon uso dei nuovi media), sia a livello tradizionale: la chiamano grass-roots politics o, come piace a noi, movimento di base. Potremmo parlare dunque di altri modelli, ognuno con chiari e scuri: Occupy Wall Street, Podemos, Syriza,…

 

  1. La risposta all’altezza dei tempi è un nuovo populismo, ma non un populismo qualsiasi

Bensì un populismo di sinistra, i cui cardini principali siano la capacità di costruire un framing coerente intorno a poche proposte operative. Un buon inizio potrebbe essere ricostruire la lotta di classe a partire dalla contrapposizione tra classe lavoratrice (in cui includere autonomi e piccoli e medi imprenditori che sudano i loro guadagni) e rentiers (coloro che vivono di rendita finanziaria e/o sull’occupazione di posizioni elitarie)? Riprendere lo slogan del “noi siamo il 99%”? Quella stagione non è sopita, così come quelle esigenze non sono scomparse. Ne parleremo ancora, quindi restate sintonizzati.

Non sarà facile nemmeno mettersi d’accordo tra noi su quattro o cinque semplici misure con cui rispondere alle sfide del nostro tempo. A sinistra parliamo tanto di solidarietà, ma spesso siamo degli egocentrici settari. Ad esempio, contrapponiamo lavoro e reddito: cosa intendiamo per reddito universale (inteso come basic income)? Il reddito universale si contrappone alla dignità assicurata solo dal lavoro? O ancora, a proposito della sovranità nazionale: più Stato è garanzia di una politica sociale inclusiva? Lo è invece la piccola comunità, e quindi bisogna frantumare la sovranità? O, al contrario, l’Europa unita è l’unico possibile spazio geopolitico in cui agire?

Non è detto che proposte apparentemente contrapposte si escludano: ridurre l’orario di lavoro è in perfetto accordo con il concetto che ispira il reddito di base, ed entrambe le proposte non contraddicono una politica ambientalista per ridurre l’impronta ecologica. Riappropriarsi della sovranità monetaria non è in contrasto con l’idea di accordi multilaterali europei per garantire la libera circolazione delle persone, ma non dei capitali.

È possibile che, una volta tolte le lenti dell’ideologia più becera, del personalismo, del settarismo, della ripetizione scolastica della propria Weltanschauung, le differenze tra noi siano più tattiche che strategiche o ontologiche. Dobbiamo smetterla con la gara machista a chi ha il marxismo più lungo.

 

  1. Dividersi i compiti e muoversi coordinati

Sarà la difficoltà più grande. Le guerre si vincono con i grandi strateghi, o con i valenti generali? O con un esercito numeroso? O con pochi soldati motivati e disposti al sacrificio? O anche solo con la corretta pianificazione della logistica?

Come ricondurre la discussione (a noi di sinistra piace perderci nelle discussioni sul sesso degli angeli) a un movimento coordinato, non personalistico ed efficace, è un’avventura tutta da scrivere. Per il momento, facciamo che decidere poche regole del gioco: chi deve fare analisi faccia analisi, chi deve comunicare comunichi, chi deve facilitare le discussioni le faciliti. Ognuno si metta a disposizione e sia disposto a mettere in comune le proprie convinzioni e rispettare anche decisioni altrui.

Le energie ci sono già. Sono frammentate e forse disperse. Ma non perse. Vanno riattivate.

 

  1. La presenza nella vita reale sostiene il framing al pari della strategia comunicativa

Dare prova di coerenza aiuta a essere presi sul serio nel re-framing e nel framing. Nel quartiere periferico di Roma come sul palcoscenico politico nazionale. Costruisce il successo elettorale di formazioni prima marginali (vedi Alba Dorata e Syriza), ma soprattutto costruisce legami sociali reali e veri, non social network digitali. Se ci sono risorse relazionali, è più facile aumentare e usare al meglio quelle economiche e di ogni altro tipo.

Quale risposte dare alle persone? Dipende dai loro bisogni reali (vedi punto D). C’è bisogno di casse di mutuo soccorso per i lavoratori autonomi (vedi la cooperativa SMArt). C’è ormai bisogno di poliambulatori popolari (vedi l’ambulatorio popolare di Napoli dell’ex Opg). C’è bisogno di risposte di tipo sindacale che i sindacati, rinchiusi come gruppi di potere, non danno più. C’è bisogno di iniziative culturali, di integrazione, di convivialità. Servono scuole di politica orientate, tanto quanto spazi di discussione aperta.

C’è bisogno di tante cose che già facevamo nell’ 800 e di altre da inventare in forma nuova.

È una sfida aperta, rifondare le une e immaginarsi le altre.

 

  1. Rimanere coscienti delle asimmetrie di potere (e non lasciarsi abbattere)

La sproporzione delle forze economiche, mediatiche e politiche in campo è impressionante; il nostro modello dovrebbe dunque essere la vittoriosa resistenza vietnamita ben più della dirompente invasione del D-day.

Un processo di erosione del capitalismo, piuttosto che una vertiginosa transizione a un nuovo modo di produzione, accettando di dover fronteggiare – come evidenziato da Erik Olin Wright – “un orizzonte temporale imprecisato, ma che punta nella giusta direzione, che abbia dinamiche che generino nel tempo più solidarietà e non meno, più democrazia e non meno, più uguaglianze e non meno”.

La società si sta decostruendo in un turbinio di delegittimazione e disgregazione sociale. Ricordiamoci che la mancanza di autorità non è una cosa buona di per sé. Qui abbiamo una società in cui manca l’autorità ma il potere c’è, è ben vivo, e paradossalmente diventa più forte quanto più perde di legittimità.

Nella guerra di tutti contro tutti che si scatena quando le persone non riconoscono più punti di riferimento (scientifiche, politiche, gerarchiche, spirituali), le elezioni sono ormai quella cosa in cui fake news e fatti oggettivi sono indistinguibili, e alla fine vince Trump.

Trump vince perché ha più denaro, più risorse relazionali, più affinità con le logiche mediatiche. Ma vince anche perché parla direttamente alla “gente”, e ne capisce le paure profonde.

 

  1. Avere pazienza

Bisogna prendere atto che siamo in una fase di reflusso democratico, sociale e culturale. Quindi nessuno si illuda che quanto appena illustrato sia facile o che i nostri figli lo vedranno realizzarsi. Tuttavia abbiamo una posizione di snodo fondamentale: in una società fluida, siamo la generazione della transizione. È il tempo di una “pazientissima semina”. Questo è stato il terzo segreto della destra neoliberista: lo stato sociale non è stato abbattuto in un giorno, ci hanno messo decenni; e non ci sono ancora riusciti del tutto.

 

  1. Fare un profondo respiro

E ripartire dal punto A.

 

 

In evidenza

FEIC NIUS: Quello di cui non parleremo in campagna elettorale

Previsioni per tempo

Quello di cui (probabilmente) non parleremo saranno altri temi. Proviamo a tirarne fuori una lista non esaustiva:

D di Diseguaglianza – nonostante la nostra sia l’epoca della diseguaglianza nell’appropriazione di reddito e patrimonio, nonostante l’erosione della classe media (confrontate la S di Stabilità…), in Italia manca un movimento come quello degli Indignados o Occupy Wall Street in grado di fare diventare questo tema una questione centrale. Eppure la L di Lavoro e la R di Reddito sono strettamente imparentate con il fenomeno globale della diseguaglianza, tra paesi e tra classi. Per non parlare di tanti altri temi trascurati: la I di Istruzione, la S di Sanità, la P di Pensioni, etc. etc.

E come ecologia – in Italia manca anche un partito di ispirazione ecologista paragonabile ad altre realtà (specialmente in Nord Europa) e che riesca ad andare al di là del piccolo recinto vegano-ambientalista e dei suoi dogmi; un approccio serio e meditato al problema ecologico (non solo cambiamento climatico, ma anche consumo del suolo, inquinamento, tutela del paesaggio,…) è rinviato a data da destinarsi.

D’altra parte, la tutela dell’ambiente sembra (è?) un lusso da ricconi, quando il primo problema è mettere assieme il pranzo con la cena.

F di Finanza – nell’epoca del “finanz-capitalismo”, non ne parleremo mai abbastanza; se capiterà di discuterne, sarà in termini di rischio spread, paure irrazionali dei mercati, boom degli investimenti azionari, miliardi di euro (mai esistiti in realtà) bruciati da poche sedute in Borsa. Il nostro linguaggio, quando ne parleremo, sarà sempre il solito: la lingua impenetrabile degli specialisti, zeppo di tecnicismi e termini inglesi, oppure quello delle disgrazie naturali inevitabili. O al contrario quello del complotto plutocratico. In un caso come nell’altro, senza capirne alcunché.

P di Periferie – le nostre periferie trascurate, abbandonate, mai riqualificate, impoverite, non saranno probabilmente al centro della discussione, salvo poi diventare uno degli argomenti in termini di analisi dei flussi elettorali per spiegare il crollo dei partiti “tradizionali” in nome di formazioni xenofobe o che credono alle teorie sulle scie chimiche. Insomma, si parlerà degli effetti senza aver mai adombrato alcunché delle cause.

S ampia e diffusa, quella della Sicurezza idrogeologica e degli edifici – a meno che un terremoto non ci venga cortesemente a sollecitare, è molto probabile che fino alla prossima disgrazia non si parlerà di messa in sicurezza degli edifici nelle zone sismiche, né si discuteranno interventi su un territorio fortemente impattato dal rischio idrogeologico. Peccato, sarebbe una maniera intelligente di sostenere la creazione di posti di lavoro (tanti) con interventi comunque necessari.

V per Votanti (numero di) – la giostra della vittoria del post-elezioni, in cui tutti vincono e in realtà molti hanno perso voti in termini assoluti, difficilmente si concentrerà sull’astensionismo come facevamo qualche anno fa. Tutti impegnati a parlare di percentuali, a fare la conta dei seggi, a rivendicare il voto di “milioni di persone”, la forza impressionante e travolgente di votanti entusiasti. Nessuno a pensare a quanti voti persi o guadagnati rispetto alle ultime elezioni. Tanto per “dare i numeri”, dalle politiche 2013 (dati della Camera) alle europee 2014: il Pd da 8.6 milioni (25%) a 11,2 (40%), oggi proiettabile al 24%; il Popolo della Libertà da 7,3 milioni (21%) a 4,6 per Forza Italia (16%), oggi al 15,7%. Ma DS e Margherita, genitori del PD, assommavano 12 milioni di voti solo l’altro ieri, nel 2006; e Forza Italia più An 13 milioni. Altri sono cresciuti, nel frattempo, certo, sopratutto il M5S, che viene dato nel 8,7 milioni (25%) a 5,8 milioni (21%) ed oggi al 28%, la Lega da 1,3 (4%) a 1,6 (6%) ed oggi al 13%, il raggruppamento di sinistra dal nome mutevole dal milione di voti (3%) di SeL al milione de L’Altra Europa con Tsipras (3%), oggi al 6-7% con LeU. Ma soprattutto andrebbero considerati i dati relativi all’astensione, che si gonfia da un anno all’altro: chi non si sentiva rappresentato è passato da 7,7 milioni nel 2006 a 9,2 nel 2008, ad 11,7 milioni nel 2013, fino a 21,7 milioni nel 2014. Elezioni diverse, quelle politiche da quelle europee del 2014, certo. Ma l’astensione rimane sempre e comunque la scelta preferita dagli italiani, il primo partito (o non-partito).

Come avrete notato, negli ultimi due articoli le nostre riflessioni sono state abbastanza aperte. Abbiamo, su molti temi, nostre opinioni ben più nette di quanto non abbiamo fatto trasparire qui. E ne riparleremo. Ma ciò di cui abbiamo bisogno è apertura mentale e capacità critica.

In questa sede il nostro intento non era discutere dei temi specifici, ma di come questi vengano affrontati (o occultati) con faciloneria dai nostri (futuri) rappresentanti davanti alle folle plaudenti. Nella “commedia dell’arte” delle elezioni, il canovaccio prevede topoi onnipresenti ed altri totalmente rimossi. Ma è sempre possibile che il Mondo Reale (una frana, un rogo in un quartiere disagiato) faccia la sua tragica comparsa sul palcoscenico allestito da media e politici, portando alla ribalta problemi differenti dagli slogan collaudati. Quindi meglio allargare un po’ lo sguardo per tempo, e magari sbirciare cosa c’è a bordo palco o dietro le quinte.

In evidenza

Previsioni per tempo

Non potrete dire che non vi avevamo avvisato. Avvertenza: tenere lontano da militanti politici suscettibili.

Proviamo a fare, attraverso un piccolo gioco, delle previsioni sulle elezioni parlamentari del prossimo marzo. No, non cercheremo di indovinare il vincitore o le percentuali dei partiti. Per quello ci sono già i sondaggisti ed i (talvolta più affidabili) bookmakers (di cui esiste il termine italiano, quasi losco ma legale, “allibratori”).

Piuttosto, tiriamo ad indovinare quali saranno gli argomenti che “terranno banco” nella prossima campagna elettorale e vediamo, di ognuno, gli “effetti collaterali”, il rimosso. Considerate questo breve articolo un piccolo “bugiardino”, da leggere per iniziare a destreggiarsi tra slogan, dogmi e falsi miti, prima che la febbre elettorale vi colga e dobbiate fare uso della tessera elettorale.

Abbozziamo un elenco, in ordine strettamente alfabetico, dei temi che saranno in voga:

D di Diritti – la sinistra non avrà molti altri “successi” da cavalcare, dato che dal punto di vista sociale il suo contributo è altrimenti “non pervenuto”; la destra ne approfitterà per osteggiare diritti contrapposti ai Valori. Mai si parlerà di diritti e possibilità economiche, assieme. Allo stesso tempo, agli ultras del diritto di ognuno di fare qualunque cosa, non basterà quanto fatto finora, a torto o (qualche volta) a ragione. Si parlerà ancora di Ius soli e forse di eutanasia, dopo l’affossamento del primo e l’approvazione del testamento biologico. Il tema delle unioni civili dovrebbe lasciare più sullo sfondo il matrimonio omosessuale, mentre è possibile che si parli di parità delle retribuzioni tra uomini e donne. In ogni caso, saranno diritti senza doveri o doveri senza diritti.

E di Euro (più che di Europa) – la camicia di forza imposta dall’euro ha, secondo molti, impoverito il sistema produttivo del paese, che era basato anche sulle svalutazioni competitive (che rendevano più facilmente esportabili i nostri prodotti), mentre secondo altri ha tutelato il paese dalla correlata inflazione. Quel che è certo è che si discuterà di moneta in termini referendari: euro sì oppure no. Dimenticandoci che la sovranità monetaria non è solo disporre di una propria moneta, ma anche avere il controllo di una banca centrale al servizio del pubblico interesse, ad esempio. O che il tessuto produttivo, euro o non euro, si ricostruisce con una seria politica industriale, termine che per il neoliberismo imperante (di cui l’Unione europea è una manifestazione originale) è una bestemmia. Probabilmente non si andrà molto al di là delle retoriche anni ’90, da cui siamo nauseati: da una parte l’euro quale fattore di modernizzazione per un paese arretrato, che altrimenti affronterebbe l’apocalisse di un’uscita dalla moneta unica, dall’altra la bellicosa retorica spicciola di vecchi e nuovi oppositori (alcuni improvvisati) dell’euro, ma non dell’ideologia da cui è stato concepito.

I di Immigrazione – tra successi veri o presunti del governo (lo “stop” agli sbarchi……) e le retoriche pro e contro l’integrazione, parleremo molto dei migranti che devono ancora arrivare e di quelli che sono già qui. Ma non parleremo del fatto che non è possibile accogliere tutte le persone in cerca di lavoro. Non diremo ad alta voce che non si può accettare acriticamente lo slogan semplicistico “aiutiamoli a casa loro”, per vari motivi. Primo perché gli che aiuti economici “a pioggia” non migliorano le condizioni dei popoli interessati; secondo perché chi parla di immigrazione solitamente i fondi alla cooperazione li ha tagliati, senza sostituirli con alcunché; infine perché a monte ci sono cause economiche, geopolitiche e sociali che scatenano le migrazioni su tutto il pianeta, non solo verso la nostra piccola Italia. Nessuno ricorderà che le nostre leggi non riescono ad impedire la permanenza degli spacciatori pluripregiudicati, ma in compenso inchiodano al rimpatrio i muratori stranieri che non hanno altra colpa se non il lavorare in nero. Trascureremo il fatto che le nostre periferie sono imbottite di emarginati, italiani e non italiani, il cui malcontento prima o poi esploderà. Insomma, se ci dimentichiamo di tutte queste cose… di cosa stiamo parlando? Resteranno solo buonismi e complottismi.

L di Lavoro – Quasi tutti contrappongono il Lavoro all’integrazione del Reddito, inteso come l’ennesimo ammortizzatore sociale, puramente assistenziale (vedi oltre). Comunque, ci aspettano grandi promesse, miliardi di posti di lavoro. Una buona soluzione potrebbe essere far vincere tutti: la somma aritmetica dei posti di lavoro promessi da ognuno potrebbe consentirci di avere almeno due impieghi a testa. Il problema vero rimarrà sullo sfondo dei cartelli elettorali: quale lavoro? Lavori pubblici elargiti a piene mani sono impossibili, anche a causa di vincoli come il pareggio di bilancio in costituzione. Le aziende italiane, invece, sono in posizioni subordinate nella divisione internazionale del lavoro, quindi si dovrebbe aiutarle a produrre cosa (quali prodotto) e come (con quali tecnologie)? E poi, questo lavoro sarà pagato quanto al dipendente? e tassato quanto, per l’azienda? Il precariato imposto, le tutele degli autonomi, il rilancio del sistema produttivo nell’economia globale… saranno sottotemi oscurati dalle cifre sparate a destra e a manca. Il “futuro senza lavoro” per noi è già presente…

R di Reddito – “grande è la confusione sotto il cielo”… il tema è di gran moda, ma pare nessuno ci capisca nulla. Né le formazioni a favore di qualche misura di integrazione del reddito, né quelli contro. Basti elencare i nomi attribuiti a misure tra loro molto diverse (ma mai analizzate a fondo): “reddito di inclusione” (governo Gentiloni, elemosina di Stato per i poverissimi, subordinata alla permanenza nello stato di povertà); “reddito di cittadinanza” (il M5S, cui va riconosciuta la paternità, lo propone di nuovo come misura contro la povertà, condizionata da percorsi di inserimento lavorativo, fino a 700 euro circa); “reddito di dignità” (quando c’è da cavalcare l’onda Berlusconi è sempre un maestro: gli euro diventano 1000, non si sa bene se condizionati, né come saranno finanziati). Nessuno, sicuramente, ha letto Van Parijs, il teorico del “reddito di base”: stessa cifra erogata a tutti (da Berlusconi a chi vi scrive), su base individuale (per le famiglie, la cifra si somma), incondizionata. Per liberare le persone dalla schiavitù del lavoro e sostenere il reddito di tutti, ma con un sistema fiscale progressivo (per cui il ricco riceve il reddito, ma lo finanzia pagando più tasse). Si può essere d’accordo oppure no. Quel che è certo è che l’analisi sta a zero, le balle elettorali a mille (euro).

S di Stabilità – ce la chiederanno immediatamente i famigerati mercati, dopo elezioni senza una chiara maggioranza. I risultati possibili? Ancora il governo Gentiloni (sarebbe accanimento terapeutico?), una “grande coalizione” PD-Forza Italia (che a parole nessuno vuole, ma vedremo), una coalizione “anti-sistema” che difficilmente avrà i numeri (M5S con Lega o Liberi ed Eguali, come se fossero equivalenti…). In ogni caso, la legge elettorale è un “pastrocchio” che non facilità l’individuazione di maggioranze coerenti e allo stesso tempo non darà granché in termini di rappresentatività proporzionale. Quel che è certo è che i partiti si daranno da fare (ipocritamente?) per distanziarsi il più possibile, salvo poi decidere post-voto per alleanze anche innaturali. Ancor più certo è che i media ci bombarderanno di speculazioni sul tema, coprendo in tal modo questioni di impatto decisamente più diretto nella vita degli italiani. I mercati, i politici, e spesso anche i militanti, purtroppo si eccitano spesso con il punto G (di Governabilità).

T di Tasse – tema onnipresente nel paese dall’elevata tassazione e dall’abnorme evasione, ora però pure sulla scia del taglio delle tasse di Trump (che come al solito avvantaggerà chi ha redditi più alti e toglierà servizi a classe media e poveri). Le retoriche contrapposte, tutte e vere e tutte faziose, oscilleranno tra “- La tassa sulla prima casa l’ho tolta io – No, io” e “flat tax per tutti”. Probabilmente non toccheremo le vette del creativo “le tasse sono una cosa bellissima” di Padoa-Schioppana memoria, ma toccheremo il fondo con lo “Stato criminale ed inquisitore” in cui “è tutto un magna magna”. La questione dove la nostra italianità viscerale viene meglio messa in scena.

Che dite, ne abbiamo dimenticato qualcosa? Magari direte la P di Pensioni o di Plastica (sacchetti di), la D di Debito, la I di Innovazione, la F di Fake news. Ci torneremo.

Soprattutto, però, ci chiederemo: quali sono i temi che dovremmo discutere, ma di cui nessuno sta parlando?

In evidenza

Barba e Pivetti – Un dibattito sull’euro

A seguito della pubblicazione dell’intervista ai professori Barba e Pivetti, il sito online che ci aveva ospitati pone la seguente domanda, sulla base del fatto che non si parlasse apertamente nell’intervista di uscita dalla moneta unica:

“Forse si dà per scontato che il ritorno alla sovranità nazionale monetaria e fiscale porterebbe necessariamente all’uscita dall’euro?
O forse si ritiene che si possa riuscire a condurre politiche espansive anche restando nella moneta unica? “

Qui sotto la nostra personale risposta. 

I primi articoli di uno dei membri del collettivo Aristoteles contro l’entrata nell’UE e contro l’euro risalgono al 1996. Analisi allora molto elementari, che derivavano dalla semplice lettura dei trattati, ma scritte in tempi non sospetti. Non scriviamo questo per arrogarci la primogenitura del “noi lo dicevamo già venti anni fa”, ci mancherebbe. Ma perché è bene tenere presente quali siano state le responsabilità dei politici (della Prima e della Seconda Repubblica) nella vicenda; non fosse altro per valutare questa fioritura di vecchie facce che fondano nuovi movimenti “sovranisti” e che faranno dell’uscita dall’euro lo slogan (vuoto?) della campagna elettorale che è già iniziata.

Partiamo da lontano per questa breve risposta, in quanto riteniamo doverosa una premessa di chiarezza. Siccome il nostro punto di arrivo è il ripristino del controllo politico (almeno parziale) dell’economia, è bene partire da una posizione, per l’appunto, politica.

Quanto alla nostra opinione, in breve riteniamo che si debba uscire dall’euro e ritornare ad una moneta nazionale.

L’uscita dall’euro, tuttavia, è una misura necessaria, ma non sufficiente.

Una serie di misure concomitanti sono indispensabili per riaffermare il controllo politico dell’economia: una nazionalizzazione della banca centrale, innanzitutto, integrata da una serie di decreti di regolamentazione di alcuni aspetti essenziali del sistema bancario e di investimento. Tutto questo permetterebbe il recupero di quella che chiamiamo sovranità monetaria.

Tutto questo però, a sua volta, è (di nuovo) necessario, ma (ancora) non sufficiente a ripristinare un soddisfacente equilibrio sociale ed economico.

Perché non è sufficiente?

Occorre effettuare un’analisi dei rapporti di forza per mappare il contesto attuale: il sistema democratico è stato smantellato, il compromesso sociale keynesiano distrutto, la mentalità solidaristica soppiantata dall’ultraindividualismo. L’Unione europea è uno dei tentativi di liquidare il più grande esperimento di emancipazione della storia umana (pur con tutte le sue contraddizioni): il Novecento.

Delineato questo quadro, l’integrazione monetaria europea appare come la punta di un iceberg sommerso.

Riteniamo quindi che questo non sia il momento di “fughe in avanti” (magari date in pasto ad un popolo confuso ed arrabbiato, per puro interesse elettorale), ma di una pazientissima semina (in cui l’analisi teorica si unisca a pratiche mutualistiche, solidaristiche e di lotta tutte da inventare).

Uscire dall’euro, quindi? Sì. Ma solo come parte di un progetto più ampio di rinascita sociale, lunga e faticosa.

(Pubblicato in origine: dicembre 2017)